venerdì 4 novembre 2016

7 minuti di Michele Placido

Che tempi sono, quelli dove una persona deve accettare tutto, per mantenere un posto di lavoro? Cosa rimane del lavoro se dovessimo toglier ad esso, il suo valore sociale? E che tipo di classe operaia potremmo mai avere, se ad essa dovessimo levare ogni coscienza di classe?
Sono domande che forse non si fanno più. Preferiamo rimembrare i felicissimi anni di contestazione, lotte, culminate con quella bellissima legge: La Legge 300 del 1970. Ne avrete sentito parlare, no?  Lo statuto dei lavoratori.
Fate così: a sorpresa, durante le feste di Natale, proprio nel momento in cui tutti sono un po' brilli o rincoglioniti dal troppo cibo, leggete ad alta voce codesta legge magnifica. Smontata, distrutta, resa carta straccia, da questo miracolo di benessere e democrazia che è il Capitalismo senza più nessun comunismo a cacciarlo nel ruolo che gli compete: la spazzatura della storia. Accanto ai menscevichi, a un Kautsy, insomma lì.
Leggete come se fosse una bella favola ai vostri parenti operai, impiegati, manovali, insomma ai lavoratori cosa erano. Cosa avevano ottenuto. Nonostante le bombe, le violenze della polizia e del padronato.
Sì. a un certo punto ditelo, usate questo nome: Padronato.
Vedrete la reazione di una classe senza coscienza, senza ideologia; vi posso anticipare: 1) io devo tutto al mio padrone, diranno padrone in tono ironico - compatiteli- lui mi dà i soldi per campare, 2) tutta colpa degli stranieri ci portano via il lavoro, però allo stesso tempo non fanno un cazzo e si prendono 35 euro. Però mi portano via il lavoro, 3) ma le cose vanno così. Quelli erano altri tempi. Hanno vinto loro, che vuoi farci. Queste saranno più o meno le loro reazioni.
Potreste rammentare che la classe lavoratrice ha sempre subito, nell'arco della sua storia,  lunghi periodi di sconforto e sconfitta. Vuoi per la divisione tra riformisti e comunisti, i secondi come sempre hanno ragione, vuoi per la dittatura prima del fascio e poi del mercato sotto il capitale. Ci sono stati momenti di buio totale e di repressione delle classi proletarie e d'avanguardia anche sotto la nostra benedetta democrazia. In particolare negli anni 50, dove a Torino, nella Fiat si portavano avanti oppressioni del sindacalismo di orientamento comunista. Schedature. licenziamenti, spostamenti di reparto. In quei tempi, sotto il fascismo e sotto la democrazia padronale,  la classe lavoratrice era piegata.
Però, come ben saprete, anche il cane più impaurito, alla fine morde la mano che lo maltratta.
Questo dovremmo ricordarlo come lavoratori: c'è tempesta, mare mosso e noi abbiamo  una piccola barchetta a remi, verrebbe voglia di non insistere a remare per superare le onde e di smetterla di controllare che dietro i nuvoloni neri, possa - come per magia- sorgere il sole. Possiamo prendercela con chi a nuoto cerca di salire sulla nostra barca: lui vuole farci affondare. Possiamo fermarci e pensare che tanto sono le onde, è la tempesta a decidere per noi, le cose vanno accettate. La realtà è questa, non la puoi cambiare.  Si, possiamo fare queste cose. Finiremo sconfitti e annegati. Magari nel primo caso si potrebbe gioire nel veder uno più povero di noi affondare per primo. Questa è la gioia dei nemici di classe,  di quei proletari asserviti al padronato. Quelli che andrebbero spazzati via senza un minimo di ripensamento, ma così facendo perderemmo comunque pezzi di classe.
Insomma tutte queste reazioni sono normali, appartengono al nostro tempo, segnano le difficoltà della classe lavoratrice, simboleggiano la sconfitta ancora non del tutto superata del movimento operaio, a Torino nel 1980.
Dico solo: ma ci serve a qualcosa? La remissività, l'accettazione di esser debolissimi, la certezza che i rapporti di forza siano sfavorevoli? Ci servono queste cose? Sì, servono! Ma non- come vogliono i rinnegati liberaldemocristiani di un noto partito governativo- per accettare modernizzazioni a favore delle classi padronali e dei loro ascari. No, ci serve per capire che la storia del movimento operaio e di tutti lavoratori è segnata da pesantissime sconfitte e da straordinarie vittorie. Il periodo che viviamo dunque non venga sacrificato a confondere lotta- di classe e politica- con  l'accusa generalizzata al populismo, l'accettazione di ogni idiozia perché qualcuno urla : buffalaaa! (Equivalente di ruspaaa!!!!) il lavoratore deve incominciare per prima cosa a considerarsi Essere Umano. Non un oggetto ricattabile, non uno che chiede l'elemosina al suo benefattore, cominciare a lottare per i diritti, e rivendicarli tutti. Anche quelli più piccoli e sciocchi.
Come perdere 7 minuti di pausa quotidiani, rispetto ai 15 minuti che si hanno.



L'ultimo bellissimo film di Michele Placido, narra di questo: di cosa è diventata la classe operaia, dei ricatti che subisce, del linguaggio amichevole e famigliare da parte dei padroni per confondere e dividere i proletari, della difesa non solo del posto, ma della dignità umana. La storia di ispira a un fatto vero, successo in Francia,  ed è la trasposizione cinematografica di una commedia teatrale di Stefano Massini. Un drammaturgo quarantunenne di Firenze, con alle spalle anche una lunga collaborazione al fianco di Luca Ronconi. Ecco, io penso che molti dovrebbero studiare la sceneggiatura scritta dal drammaturgo con altri collaboratori, tra questi Placido, per capire oggi come dovrebbe esser girato un film "politico". Perché sopratutto quando parli di lavoro, parli necessariamente di politica.  Questa splendida pellicola funziona grazie a una sceneggiatura che sa raccontare perfettamente il presente, ma non si limita solo a questo: lo critica, lo sviscera, analizza, e lo "condanna". Le undici donne protagoniste, le quali dovranno prender la decisione di perder sette minuti di pausa, regalando quel tempo alla dirigenza e alla produzione, secondo l'ottica di "assumere senza assumere", sono lo specchio fedele di cosa eravamo e di cosa siamo, come lavoratori, ma anche come classe.
Le divisioni interne fortissime, la paura di perdere il posto, l'individualismo sfrenato che ci impedisce di pensarci e vederci come classe sociale e politica, ma individui, per questo arroccati su una linea difensiva della nostra vita e a fanculo il resto, è ben espressa e messa in scena dal film.
Le operaie straniere, che vengono da realtà difficilissime, si adattano a tutto. Per vivere. Per paura. Che sia l'africana scappata dalla miseria, o l'albanese che oltretutto deve difendersi dalle avance di quel porco del suo capo. La collega napoletana se ne fotte di tutti e tutto, lei ha un marito in mobilità, i figli piccoli, e la vergogna di chieder l'elemosina. Insomma tutte hanno le loro debolezze e paure, tutte - come la nostra generazione- non vorrebbero lottare, ma accettare ogni cosa, qualsiasi cosa, pur di lavorare, pur di stare nel sistema.


Tutte, tranne una: Bianca. La più anziana. Sarà lei che con un lungo lavoro, difficilissimo e spesso spezzato dalle divisioni con le compagne, per età ed esperienze,  darà inizio a una lunga riflessione sul lavoro, il ruolo del lavoratore, il linguaggio padronale e il suo paternalismo.
7 minuti, è cinema necessario, fondamentale, prezioso. Ha un linguaggio popolare ma mai banale, una descrizione perfetta della deriva che ha preso la classe lavoratrice e operaia in modo particolare, è una pellicola di assoluta possanza etica e morale, qualcuno si lamenta della retorica, ma noi ce ne freghiamo perché la vita è anche retorica, banale, ma non per questo meno incisiva e giusta. Infine ha un cast davvero straordinario: Ottavia Piccolo, Ambra Angiolini e Cristiana Capotondi (le quali mi hanno stupito, bravissime! Lo dico non essendo propriamente un loro ammiratore) e le rivelazioni, come attrici,  Fiorella Mannoia, e  Maria Nazionale.
Perché il cinema ha anche codesto compito: raccontare e rielaborare la nostra vita e la nostra epoca, sporcandosi le mani con le contraddizioni del sistema e della realtà.