Green Book, tradotto vuol dire "Libro Verde". No, non è quel magnifico trattato politico che era la costituzione libica, ma più prosaicamente un itinerario in cui si mostra e si indica agli afro-americani in viaggio, dove sostare, che strade fare, vuoi mai che tu possa dormire nello stesso motel dove sta un bianco!
Sopratutto nei primi anni sessanta, per un nero non era facilissimo muoversi e vivere negli Stati Uniti. C'era la segregazione, bombe nelle chiese. linciaggi.Insomma non era proprio un bel posto. Come ben sappiamo ci sono state lotte sacrosante da parte della popolazione afro americana. Lotte che spesso si contaminavano anche con un discorso di classe e questo contraddistingue il movimento per i diritti degli afro americani, rispetto ad altri più borghesi e di maggior successo tra i bianchi e bianche.
Questo film è ambientato in quel contesto sociale e politico ma non confondiamolo con opere (come ad esempio Detroit) che puntano di più sulla denuncia e sulla rappresentazione del conflitto. Il problema razziale è presente, in ogni fotogramma, ma è lasciato a qualche esplicita scena, peraltro legata a fatti quasi marginali, non violenti e tragici, ma per questo ancora più incisivi. Per il resto della durata il tema razziale è in sottofondo. Legato ai dialoghi, agli atteggiamenti, e alle dinamiche tra i personaggi. Tutto questo perché Green Book è una commedia, non un dramma. D'altronde il film è diretto dal tizio responsabile, insieme al fratello Bobby, di pellicole come "Scemo e più scemo", "Kingpin", " Tutti pazzi per Mary". Il registro che gli appartiene è quello della gag, della leggerezza, non del cupo e radicale dramma politico. Io credo che questo possa giocare a sfavore della pellicola perché la commedia è considerata dai dotti e sapienti e dagli eterni incazzati, come una sorta di sguattera, una poco di buono, una creatura inferiore, nel e del magico mondo dei generi. Non è così. Qui non puoi giocartela con un jump scare, non ci puoi mettere una scena di sesso dietro l'altra con il sax in sottofondo, o un po' di inseguimenti e sparatorie che alla fine il prodotto l'abbiamo portato a casa.
Nella commedia devi fare una cosa precisa e fondamentale, altrimenti rovini tutto: devi scrivere degli ottimi personaggi.
Personaggi, quindi esseri di finzione per cui farai anche uso di luoghi comuni. Sarebbe meglio evitarli, certo, ma è difficile se vuoi che il tuo prodotto sia visto da più persone possibili. Non è solo questo il motivo. Ecco, alcuni spettatori che la sanno lunga vivono in un magnifico mondo di cinema trattenuto, senza ricatti morali, senza retorica, senza film. Perché a furia di prosciugare rimani al secco. In nome di questa lotta ideologica e auto referenziale al luogo comune, alla retorica, dovremmo aspettarci un italo americano che negli anni sessanta lavorava come buttafuori per il più celebre locale di New York (capito il soggetto?) non rozzo, 'cafone, con gesti e linguaggi scurrili, ma pensieroso, avido lettore e poeta, di larghissime vedute. In realtà sullo schermo vediamo una rappresentazione verosimile, che potrebbe anche non garbarci, ma che descrive il contesto sociale di quel tempo, la sua composizione e come vivono le persone frutto di quel tipo di ambiente.
La commedia usa i luoghi comuni, a volte malissimo come nei cinepanettoni, altre volte decisamente bene. Come in questo caso.
Quello che vediamo sullo schermo è un classico gioco di contrasti. Da una parte un proletario italo americano con tanto di famiglia chiassosa a seguito e amicizie non proprio raccomandabili, dall'altra un raffinatissimo musicista afro americano. Come è facile immaginare due uomini davvero all'opposto che finiranno per conoscersi ed apprezzarsi. Queste sono le regole del cinema medio e della commedia, sopratutto americana. Fossimo meno ossessionati dal dover scrivere "disturbante", "devastante", " visionario", capiremmo che non viviamo di capolavori e film spiazzanti, ma di pellicole medie. Non mediocri. Anzi, spesso questo tipo di cinema è girato con cura, attenzione per i personaggi, storie che tutti possono capire. Commuovono, divertono, intrattengono senza troppe sfumature, eppure alla fine sono quelle pellicole che a noi spettatori lasciano qualcosa. Perché la nostra vita è fatta di retorica, luoghi comuni, banalità. Prima lo accettate meno vi perdete in pensieri contorti, o se preferite: in seghe mentali.
Tony (un eccezionale Viggo Mortensen) accetta di accompagnare il musicista Don Shirley in una lungo tour attraverso tutti gli Stati del profondo Sud, nel ruolo di autista. Lo fa per soldi, per aver un lavoro, non tanto perché sia un convinto anti razzista. Durante il viaggio i due cercano di trovar un modo decente per non ammazzarsi, non è semplice visto che l'italo americano è un logorroico senza freni e il rinomato musicista una persona spocchiosa e distaccata. Per cui non due personaggi che ti ispirano simpatia immediata. Tuttavia strada facendo verranno a galla, anche appena accennati. elementi che mostreranno quello che entrambi stanno nascondendo a se stessi e al mondo. Tony avrà la forza di metter in dubbio alcuni pregiudizi imparati per inerzia, perché li sentiamo tante di quelle volte da farci l'abitudine. Per cui non si è razzisti per un motivo politico, ma per consuetudine, costumanza, assuefazione. Don avrà modo di ragionare sul suo distacco verso la sua gente, come se fosse una sorta di difesa contro il razzismo e l'odio dei bianchi. L'illusione che suonando per loro, forse un pochino si possa far parte di quel mondo inaccessibile a migliaia di altri afro americani. Nondimeno in più di un'occasione mostra grande forza e dignità, quando l'ipocrisia dei bianchi viene a galla. Talora non c'è bisogno di un pestaggio o di una violenza fisica, basta esser costretti ad usare un lercio, squallido bagno nel cortile di un bianco ricco (che poco prima ti riempie di complimenti per la tua musica) o non poter cenare nel ristorante dell'esclusivo Hotel nel quale andrai ad esibirti da lì a poco; per comprendere i danni fatti dal razzismo.
Un uomo quando assiste a queste cose può agire in due modi: 1) me ne frego. Non è un mio problema, 2) stare dalla parte di chi subisce questi atti infami. Tony decide per la seconda possibilità. La cosa potente è che non si tratta di un intelligente ed istruito uomo di cultura che comprende i meccanismi brutali del mondo in cui vive. No, la scelta giusta è fatta da un uomo volgare e violento, da uno che oggi condanneremmo come populista, analfabeta funzionale, un proletario ignorante che pretende di poter votare. Eppure questo uomo così pieno di difetti starà dalla parte del colto e sofisticato artista afro americano.
Green Book è un buonissimo prodotto medio, recitato davvero bene da Mortensen e Mahersala Alì. Un film che parla di amicizia, comprensione, confronto. La cosa divertente è che qualcuno ha il coraggio di lamentarsi di queste cose vedendoci del buonismo. Questo succede perché non siete più in grado di capire, apprezzare, sostenere la vita. Non quella piena di cose eclatanti o meravigliose, degne di eroi e martiri. No, quella banale, quotidiana, dove siamo chiamati ad agire in prima persona, in cui possiamo correre il rischio di pensare anche per gli altri, riconoscerci in costoro. Pare una cosa da poco, sciocca anche, ma di questi tempi è un grande insegnamento.
Spesso i film medi sono pieni di ottimi spunti di riflessione, che noi rifiutiamo perché il regista non è quello della "crudeltà", del "pessimismo radicale", cose che ci consolano e ci fanno stare meglio. Perché se il mondo fa schifo e le relazioni non contano, mi basta scrivere "devastante" e poi farmi i cazzi miei. Ma se un'opera per le masse, per gli spettatori comuni, ci mostra una storia di amicizia (per giunta vera) allora dobbiamo piantarla di giocare a fare i fighi de facebook e domandarci come agiremmo noi. Dobbiamo confrontarci con le emozioni, i sentimenti, le scelte.
Alla faccia del "solito e innocuo filmetto hollywoodiano".
mercoledì 20 febbraio 2019
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