lunedì 27 gennaio 2020

FIGLI di Giuseppe Bonito.

Abituati come siamo a dividere le opere in capolavori o cazzate, non ci rendiamo conto di come un film riuscito non debba per forza contenere idee che apprezziamo, o senza errori. Un buon film, a mio avviso, è quello che ci rimane in mente anche dopo averlo visto, perché ci porta a riflettere su cose che riguardano la nostra vita, la società in cui viviamo.  Non è nemmeno detto che debbano essere film politici o d'autore, una commedia o un film di genere possono veicolare messaggi più o meno importanti.
In un certo senso, "Figli" è un'opera di questo tipo. Una commedia che rappresenta bene la nostra società e che ci pone anche riflessioni sul rapporto di coppia,  come sia possibile costruirsi una famiglia e mantenere un certo equilibrio interno senza sbroccare del tutto.  A volte la pellicola centra il bersaglio, spesso abbiamo i pipponi della Cortellesi.

La storia di una coppia di mezza età ( ma che come tutti noi quarantenni ancora si vede giovane) si trova a dover affrontare la nascita del secondogenito  Questo evento mina i fragili rapporti tra marito e moglie, che si vedono abbandonati a dover far fronte a tanti piccoli e grandi problemi legati ai figli, in particolare l'ultimo nato.
Questo film è tratto da un monologo teatrale di Mattia Torre, intitolato I Figli Invecchiano, portato a teatro da Valerio Mastandrea. Torre firma soggetto e sceneggiatura, non ha potuto curare anche la regia perché purtroppo è venuto a mancare.
C'è quindi una certa tenerezza e amarezza che va oltre alla trama o alle scelte di regia, come in tutte le opere- testamento.
Ma al di là di questo cosa possiamo dire di Figli? Che offre spunti per riflettere su cosa significhi esser genitore oggi, in particolare sfata il mito per cui il primo figlio sia quello più difficile da gestire. In quanto, almeno così sottolinea Torre, il primogenito trova i neo genitori pieni di forze, entusiasmo, energie, ogni cosa è nuova e le fatiche sono uguali ai problemi.
Col secondo invece tutto cambia, forse si sottovaluta la situazione e nascono problemi col lavoro, le famiglie di origine, la società sembra proprio non saper come aiutare i genitori.

Per cui l'opera punta a una analisi sociale, politica, sentimentale ma non sentimentalista della famiglia e della coppia, e in parte ci riesce grazie sopratutto alle ottime interpretazioni di Paola Cortellesi, sempre molto brava e "dentro" ai suoi personaggi, e Valerio Mastandrea, che conferma di essere uno dei nostri attori migliori, anche la regia punta a una messinscena non troppo tradizionale, puntando a elementi anche surreali. Il che rende Figli un prodotto leggermente diverso e migliore rispetto alla classica commedia italiana e più intelligente rispetto alla sopravalutata commedia francese.
L'amarezza è vera, anche se fin troppo sottolineata a volte, e i problemi, il senso di solitudine, di incapacità di poter confrontarsi con la vita e la sua complessità, tipica di noi quarantenni.
Queste sono le cose che ho apprezzato e che sono alla base del mio giudizio positivo, ma non mancano nemmeno difetti.
Tanto alcuni spunti sono interessanti quanto molti altri sono frutto del pensiero debole liberal democratico, tipico di una certa parte d' Italia. Una classe borghese anche piccola/media autoreferenziale,  che si informa male ma è convinta di sapere tutto quanto,  una classe di uomini e donne  che pensano di aver trovato i propri nemici, ma sbagliando sempre il bersaglio.
Lo vediamo come si punti a santificare le persone che hanno problemi con le agenzie delle entrate, come se al suo interno vi lavorassero solo dei sadici che non hanno niente da fare che massacrare i poveri imprenditori, in realtà moltissimi si sentono uomini d'affari ma non sono capaci e in grado di portare avanti una loro azienda. 
Non manca nemmeno quel tono che già stonava in Boris, cioè quel voler denunciare i mali del paese, con il classico qualunquismo disfattista di sinistra, come già denunciava Morando Morandini negli anni 90, cioè quel lamentarsi di vivere in un paese diviso, furbo, in cui tutto e tutti fanno schifo. Questa cosa è scritta e diretta in modo assai banale e sciatto, vedi la filippica del personaggio della Cortellesi  contro la madre, in cui tutta la colpa dei problemi italici è perché ci sono i vecchi. Che hanno vissuto a sbafo, si sono mangiati tutto quello che potevano, si alzavano la mattina e taaaac: lavoro, casa, soldi, stabilità.
Questa battaglia giovani contro vecchi è una stronzata epocale che piace a chi proprio deve dire la sua.  Come se i nostri padri non abbiano combattuto per aver i loro diritti sociali e civili,  I problemi dipendono da scelte politiche sempre più a vantaggio della produzione, profitto, contro l'essere umano, il suo bisogno di avere una relazione umana seria con gli altri, potersi costruire un futuro che non dipenda da un lavoro spesso poco pagato. Ma lo scontro giovani contro vecchi è più facile, che fa fico e non impegna.
Peraltro, ma quali giovani? Quelli che hanno già superato i quarant'anni? Forse dovremmo comprendere che siamo noi a essere troppo deboli, egoisti, capricciosi, incapaci di prender responsabilità e quando lo facciamo ci lamentiamo come se avessimo fatto cose straordinarie.
Ecco, i protagonisti di questo film non sono simpatici, non viene voglia di empatizzare con loro, a livello sociale e politico, perché poi comprendiamo che siamo tutti deboli e umani e quindi le difficoltà che vivono sono comprensibili, ci piacerebbe dargli una mano.
Tuttavia non possiamo evitare di ragionare su alcune debolezze tipiche della nostra generazione. L'idea è che molti di noi pensino di esser la prima generazione a crescere in condizioni di grosse difficoltà. E le grosse difficoltà spesso sono legate ai rapporti con gli altri. La coppia, la famiglia, visti come obblighi, doveri, che noi "giovani" vorremmo evitare oppure non sappiamo come affrontare.
Ci sono moltissimi film che parlano di quarantenni in crisi: con gli uomini o le donne, con la famiglia di origine o propria, tutti più o meno uguali, pronti a giustificare la generazione di cui facciamo parte.
Siamo quelli che sanno tutte le sigle dei cartoni animati, che ci lamentiamo se ci uccidono l'infanzia con i remake dei nostri film degli anni 80, quelli che pur capendo di vivere in un mondo di merda non se la sentono di metter in crisi il capitalismo, perché laici a cazzo di cane come siamo siamo fondamentalisti dell'economia e del libero mercato.
Tutto questo però nei film non viene mai portata al centro della narrazione, preferiamo evitare un mea culpa urgente e pressante per rifugiarci in riflessioni politiche banali, scontate, noiose. 
Per questo Figli non è un film riuscito del tutto,  troppo supino a una critica sociale dozzinale, non tanto perché fatta da gente sciocca e ignorante, ma perché frutto della pigrizia intellettuale di una classe semi borghese, leopoldiana.
Tuttavia la bravura dei protagonisti, alcune riflessioni di sceneggiatura e una regia comunque incisiva costruiscono un prodotto decente e piacevole.
Ribadisco un film non deve per forza essere un capolavoro o scevro da difetti. L'importante è che ci stimoli  a pensare, riflettere, questo avviene vedendo questo film.

martedì 21 gennaio 2020

SORRY WE MISSED YOU di KEN LOACH.

La stagione cinematografica 2020 si è aperta con la visione di film diretti da autori che per un motivo o l'altro non sono tra i miei preferiti o, come nel caso di Loach, ho rivisto alcuni punti di contatto con la sua visione del metter in scena la realtà sociale di questi tempi.
Il regista inglese è un pilastro della mia educazione al cinema, come spettatore indisciplinato e politicizzato, opere come Kes, Family Life, Piovono Pietre sono visioni fondamentali che ancora oggi mi scaldano il cuore di sano fuoco rivoluzionario. Tuttavia col tempo le sceneggiature di Paul Laverty,  mi son sembrate sempre più fiacche, legate a una facile indignazione, a una rappresentazione superficiale delle dinamiche di classe e dei rapporti di forza. Questi problemi sono ben presenti anche in questa opera, ma in questo caso ci sono anche elementi riusciti che rammentano quasi i tempi migliori di Loach. Quasi, eh.
Certo la sceneggiatura vuol mettere troppa carne sul fuoco e per questo sembra che si disperda senza approfondire nulla. Lo stile Laverrty e trockjista, che ci dobbiamo fare. Nondimeno analizzandolo con molta calma e riflettendoci con rigore politico, potremmo anche trovar giusto questo senso di dispersione, di non compiuto che è una cifra della pellicola.
In fin dei conti Loach rappresenta la classe lavoratrice e le sue dinamiche/contraddizioni interne. Sopratutto tiene a mente e riprende il contesto sociale e politico in cui i personaggi si muovono.
E oggi i lavoratori non sono affatto gli operai di Piovono Pietre o di altre opere, in cui pur essendo sconfitti mantenevano una visione di classe profonda e acuta.  Perché ancora memori delle lezioni delle avanguardie in fabbrica del sindacato e del comunismo.
 Per cui quei protagonisti mi sembravano - e lo sono- migliori rispetto ai personaggi dei film successivi. Proletari indignati e lamentosi ma senza nessuna idea di coscienza o lotta di classe. Nessuna. Forse sono capaci anche di votare a destra o non votare del tutto. Non c'è traccia di istinto alla ribellione, al lottare per i loro diritti.
Questo ci delude un po' perché chi fa politica ha l'idea chiara sulla situazione e magari anche una predisposizione alla lotta di classe, ma è chiaramente isolato in ogni contesto. Sì, qualche compagno si illude che nella sua fabbrica le cose siano diverse, ma non abbiamo riscontri tale per non credere che siano frutti di sogni, illusioni, vane speranze. Quel mondo è forse morto e sepolto, e per ritornare a contare deve capire il contesto odierno, non porsi in un settarismo del tutto inutile. Chi sono i nuovi lavoratori? Quali problematiche devono sostenere? Come toglierli dal loro isolamento?
Queste sono le domande che i militanti devono farsi e chiedere ai loro segretari- tutti novelli lenin- di dar una risposta, una strategia, che ci siamo rotto le palle delle polemiche tra chi ha lo 0, 2 contro quelli del 0, 1.
Domande che non vengono prese in considerazione né da Laverty  né da Loach.
Il lavoro è un elemento di rottura e separazione tra le persone. Non  un mezzo di riscatto sociale, di unione proletaria,  ma una sanguisuga che succhia energia vitale alle persone, le usa e getta come oggetti,  li spreme senza pietà.
La gloriosa libertà offerta dal mondo libero e democratico alle masse.
Complice anche un razzismo di classe che non viene quasi mai considerato, ma risulta evidente nelle critiche a chi protesta visto come un deficiente analfabeta funzionale che si oppone alle meravigliose azioni del libero mercato e del liberalismo in genere.
Per arrivare a tutto ciò chiaramente abbiamo dovuto trasformare le masse in tanti individui legati da bisogni effimeri, ma distanti o contrari ai diritti sociali, i grandi assenti nelle agende politiche dell'occidente. Semmai concediamo e riconosciamo qualche lotta per i diritti civili, giusto per dividere ancora di più  il popolo da settori avanzati della borghesia.
 Tutto questo genera lavoratori stressati, impauriti, arrabbiati ma codardi per cui è giusto prendermela col ragazzo senegalese ma mai far nulla contro il padroncino.
Non mi stupisco, la codardia e la debolezza sono le radici di questi tempi. Che si presentino come forze conservatrici e capitaliste o come effimeri progressi la debolezza e la codardia stanno sempre alla base delle scelte.
Loach e Laverty sembrano aver capito la fondamentale importanza della famiglia, aprendo una riflessione e discussione interessante visto che ultimamente sposarsi o crearsi una famiglia par un reato da sciocchi.
Come possiamo far combaciare i fatti della vita, la voglia di stare insieme, goderci i figli e i ritmi disumani del lavoro? In un modo solo, perdendo la famiglia.
O aprendo una crisi difficile da gestire. 
Le scene famigliari sono la parte migliore del film, anche se a volte paiono forzate. Tuttavia è così che si vive. Questo è il risultato del mondo capitalista.
Avere due lavori che ti rubano ogni attimo della tua esistenza ma non riuscire a vivere decentemente.
Ripeto pur lavorando entrambi.
Un tempo, molte famiglie facevano vite dignitose anche con un solo stipendio, oggi con tutte le regole e leggi in favore al padronato è difficilissimo per dei lavoratori vivere senza paura di debiti o altro.
 Abbiamo distrutto la legge 300 del 1970, lo statuto dei lavoratori, per il Job Act.  E prima ancora per tante altre leggi che hanno dato potere alla classe  imprenditrice, spesso popolata da cialtroni, per togliere tutto alle masse lavoratrici.
Lo notiamo seguendo il protagonista che di mestiere fa il corriere e sua moglie, infermiera a domicilio.
Lui, come tanti proletari moderni, si lascia convincere di esser autonomo e di poter lavorare come imprenditore di sé stesso. Un illuso che si lascia convincere con promesse di terza mano.
Forse il film ci dice ben poco sul lavoro che fa il protagonista e non approfondisce i rapporti tra colleghi, tuttavia credo sia dovuto al fatto che agli autori non interessi più un discorso politico legato alla rappresentazione politica e sociale del lavoratore, ma mostrare i danni umani fatti dal capitalismo sulle persone e in particolare sulle famiglie.
Ecco, proprio per questo penso che , pur non essendo più il Loach che amavo da ragazzo, questo film vada visto. Per una riflessione seria e ponderata su temi che colpiscono tutti noi.

martedì 14 gennaio 2020

IL TERZO OMICIDIO di H. KOERE-EDA.

Esiste la Verità? La risposta naturale e diretta sarebbe un sì o un no. Per mille ragioni filosofiche, sociali, politiche, morali. Risposte che a me garbano assai perché non sono un tipo da sfumature, il grigio è la scappatoia comodissima per chi non vuol partecipare, prender coscienza. Tuttavia alcuni autori o in certe culture questo senso di non poter scegliere nettamente o di aver la certezza di una risposta non vuol essere una giustificazione ma la rappresentazione di un mondo disperso, senza certezza alcuna, fino ad approdare a una riflessione tutt'altro che banale su quello che vorremmo fosse la verità, tanto da piegare i fatti a questo nostro desiderio e l'imperscrutabilità dell'animo umano e degli eventi esterni.
Queste riflessioni sorgono spontanee assistendo alla visione di questo ennesimo ottimo film del maestro giapponese. Presentato a Venezia nel 2017, rimasto colpevolmente nel cassetto per tre anni, e distribuito solo dopo la Palma d'Oro a Cannes per Affari di famiglia e il suo film in Francia con un cast di stelle occidentali, mi riferisco a Le Verità.
Anche in questo caso il tema portante e fondamentale è quello della verità. Cambia il genere e il registro perché qui Kore- Eda si dedica al legal thriller, dando spazio alle indagini di un avvocato circa la colpevolezza del suo assistito.
L'uomo è un escluso sociale, ha avuto una vita difficile, è stato in galera per l'omicidio di due strozzini, ma è stato graziato dalla condanna a morte perché il giudice si è commosso ascoltando la sua storia. Questo giudice è il padre del suo attuale avvocato.
Questa volta l'uomo non ha ucciso degli strozzini ma il padrone di una fabbrica dove egli prestava servizio di manovalanza. Il padrone l'ha licenziato e lui dopo aver bevuto lo uccide.
Omicidio e rapina, visto che dopo l'assassinio l'uomo ruba il portafoglio della vittima.
L'avvocato si trova tra le mani un cliente colpevole e che per di più continua a cambiar versione dell'accaduto.  In una perenne mancanza di verità.
Il legale indagando scopre che il padrone della fabbrica era uno dei tantissimi imprenditori disonesti, che i suoi operai erano quasi tutti uomini disperati o ex  incarcerati per cui ricattabili, sopratutto scopre che molestava la figlia. Lei stessa vuol testimoniare al processo portando questo fatto.

Fossimo in un film occidentale tutto si sarebbe sistemato in questo modo, confessione del dramma della ragazzina, il prigioniero colpevole ma in fondo ha ucciso uno stupratore incestuoso, e via dicendo.
Invece Kore-eda mischia le carte, crea sottili incertezze, cambia punto di vista e direzione seppur tenendo ben saldo in mano tutta la struttura.
Sovvertendo in questo modo le regole del genere, deludendo anche le aspettative degli spettatori che si devono accontentare di un non finale, o meglio di una conclusione stupenda ma non sottolineata e banalizzata, pur usando l'immagine già vista di un uomo fermo in mezzo a un incrocio.
Esiste La Verità o solo la nostra necessità di risposte limpide, concrete, precise? Perché l'uomo ha ucciso per difendere la ragazza, per i soldi oppure non è stato lui e paga per colpe di altri?
Il Terzo Omicidio è un film che impone allo spettatore la massima attenzione e lo spinge a riflettere, porsi domande, scandagliare le proprie emozioni profonde e l'idea stessa di giustizia contrapposta alla legge.  Non manca una sottile ma tagliente denuncia sociale contro i capitalisti giapponesi, ma ha la forza di andare oltre e di diventare un amarissimo trattato filosofico.

lunedì 13 gennaio 2020

HAMMAMET di GIANNI AMELIO.

"Il potere logora chi non ce l'ha."
Questa frase di quel vecchio volpone della politica italiana, che era Giulio Andreotti, ben rappresenta il tema principale e fondante di questo bellissimo film. Forse andrebbe aggiunta solo una piccola parola, "più".
Perché esser uomini potenti, amati, riveriti, idolatrati, e poi finire come fuggiaschi, abbandonati, dimenticati, superati dai piccoli omuncoli di cui ci piace circondarci,  logora e anche tanto.
 I giganti di argilla crollano e al loro posto rimangono uomini "piccoli, disperati e nudi" come canta Vecchioni in quel bellissimo brano che è "L'Ultimo Spettacolo."
 È dura svegliarsi un giorno e capire che si è mortali, scuote  anche le anime più solide la certezza di esser superati, di non poter più gestire la situazione e che se una volta nominar il tuo nome apriva porte e portoni, ora ti evita il carcere, nei casi fortunati, o è deriso, villipeso.
Deve essere angosciante schiacciante della responsabilità che non si vuol prendere, la mancanza di coraggio di ammettere la colpa, sperando che le nostre giustificazioni possano esser prese per vere e diventare da alibi, anche squallidi, una sacrosanta verità.
Per cui l'uomo che prima tutto poteva e di cui ogni desiderio è un ordine, si ritrova in un paese straniero, con la smania di poter ancora intervenire sulla storia e gli eventi, ma scoprirsi tragicamente solo.
La solitudine non è solo una brutta canzone sanremese è anche il rifugio disperato di chi non riesce a confrontarsi col mondo, non vuole sopportare il peso delle proprie azioni, è il ritirarsi dalla scena prima della recita finale, perché temiamo di far una brutta figura col pubblico. O di dimenticare le parole.
Forse in quei momenti di declino pensi agli inizi. La famiglia profondamente anti fascista, l'impegno e la passione politica, che da una parte ti porta ad allontanarti dal socialismo massimalista e dai comunisti ( condanni i fatti avvenuti in Ungheria nel 1956) dall'altra difendi i partiti socialisti e i compagni vittime delle dittature sudamericane, tanto che sei un accanito sostenitore di Allende, per esempio. Sfrutti la tua responsabilità all'interno del partito, ti sono stati affidati i rapporti internazionali, per finanziare i partiti socialisti in un'ottica anti fascista.
Certo, questo fatto del Craxi anti fascista è ribadito più volte dai suoi sostenitori, molti dei quali poi hanno votato per anni un signore che ha governato con i fascisti ripuliti, così come la sua azione contro i Marines.
Tuttavia sfugge la sua colpa, quella più grave e di cui ancora oggi subiamo gli effetti politici.  La nascita di un socialismo che rinnega Marx per sostener Proudhon, il modernismo come elemento di rottura con le prassi del passato che alla fine diventa mero esercizio politico e di gestione del potere.
L'avevano chiamata la rivoluzione dei quarantenni, quella nuova versione del Psi, gestita dal capo camera in parlamento, uomo di brillante prospettiva ma che i vecchi del partito consideravano come un semplice segretario di passaggio, poiché all'epoca non riuscivano a mettersi d'accordo.
Ecco, questa cosa dei quarantenni deve essere una vera e propria maledizione politica italiana. Visto che noi abbiamo i Renzi e i Salvini. In particolare il pd renziano si è basato molto sulla retorica di rompere col passato, con le vecchie ideologie, e di riformare il partito. Gli è riuscito tanto bene da fondarne uno nuovo.
Ma torniamo a Craxi. Da segretario di transizione rimane uomo di punta del partito dal 1976 fino al 1993.  È anche il primo socialista a diventare Presidente del Consiglio.
Tutto questo ha un prezzo ed è altissimo. Certo il paese va incontro a una presunta modernizzazione ma a discapito delle classi meno abbienti. C'è il famoso scontro con il Pci sul referendum per la scala mobile, che sarà una vittoria per il partito socialista. E una sconfitta feroce per i comunisti.
 L'operato politico di Craxi ha segnato la vita politica del paese, ottenendo anche importanti riscontri sulla stampa estera.
Vi invito a leggere i documenti che potete trovare in rete e farvi la vostra idea.
Perché se è innegabile l'acume politico che  ha esibito durante la sua presenza sulla scena politica italiana, tutta quella presunta sagacia è stata gestita male.
Craxi e il psi sono la Milano da bere, l'ubriacatura molesta di migliaia e migliaia di piccoli uomini e donne che si sono attaccati come sanguisughe all'uomo forte del momento.
Sotto questa luce quella di Craxi è la solita italica tragedia.
Come sempre i grandi innovatori, anzi quelli che si pensano straordinari innovatori generano il profilarsi di individui gretti, assetati di potere, spinti dall'emulazione e da una feroce invidia travestita da adulazione.  Una trappola mortale per chi pensa di avercela fatta, di essere un gigante della politica e di poter gestire partito, nazione, cambiamenti sociali da solo, spinto dalla sua visione delle cose.
A un certo punto l'anti fascismo, certe azioni giuste vengono offuscate dalla rozzezza dei metodi, delle azioni del partito e dal modo in cui la modernizzazione della nazione abbia solo dato libero spazio ai più spregiudicati e feroci avventurieri. Uomini che con le loro televisioni, le loro aziende, il loro stile, hanno radicato nel paese una politica basata sulla indifferenza totale per le leggi, l'individualismo sfrenato, il lusso da esibire, le amanti e i soldi facili.
La corruzione morale e materiale a cuor leggero e sorriso largo. Una massa di coglioni dall'effimero successo,  proni al loro dio, ma con i coltelli dietro la schiena, pronti a farlo a pezzi e dimenticarlo.. O usarne il nome per suscitare emozioni facili tra quelle persone che hanno visto da lontanissimo tutto quel potere e luccichio.
La borghesia italiana è craxiana nel dna. Poi è passata con Berlusconi.  Non possono esistere senza u uomo forte che crei una vastissima corte di nani, puttanieri, donne di dubbia moralità.  Per cui i padroncini e i loro dipendenti del nord e altri pezzi sociali del paese si sono rivisti in questo uomo, l'hanno abbandonato solo quando la sicurezza di un nuovo padrone si è palesata pienamente.
Certo qualcuno avrà pensato che nel 1992 il paese si fosse svegliato, la rabbia contro i politici corrotti, la società civile contro i partiti, i magistrati di Milano.
Un bellissimo sogno, una straordinaria speranza, ma che senza il comunismo - distrutto da un maledetto pelataccio con voglia russo-  non rimane che la lamentela, la rabbia,  l'indignazione a casaccio, sopratutto il solito malcostume italico di voler cambiare tutto per non cambiare niente.
Buttavano le monetine a Craxi, sono finiti per votar Berlusconi.
Tutto questo nel film è nel non mostrato e detto. fa la sua apparizione fugace nell'incontro con la comitiva di italiani in vacanza. Probabilmente chi pensa che il film rivaluti Craxi, non si accorge invece che in quella scena c'è molto di più. Viene mostrata la ferocia del nostro popolo che attacca uomini ormai finiti, e prima non ha il coraggio di dire nulla. Non sono i militanti del pci, o di chi ha contrastato il potere, sono quelli del " sono tutti uguali", " a me la politica fa schifo", quella massa di mediocri che oggi sono finiti a far i ministri degli esteri.
Sarebbe interessante veder questo film insieme a Loro di Sorrentino.  Anzi aggiungendoci anche la visione di 1992. Viene fuori la nostra storia, di glorie passate, di declini e perdita del potere, di vecchi signori incapaci di far i conti con le proprie colpe, ometti che si pensavano come Garibaldi, esuli in esilio e invece erano solo fuggiaschi, uomini spaventati di finir in galera.
Uomini che vanno con le ragazzine, che parlano di presidenti afro americani definendoli abbronzati..  E alle spalle la breve stagione del cambiamento, la fine della prima repubblica rinata in diretta televisiva da Cologno Monzese. Con i vip della tv commerciale, responsabili della deficienza del popolo a leccar il culo al loro padrone. Esattamente come facevano le mezza calzette e mezze seghe nei congressi di partito aspettando un cenno, un sorriso, una stretta di mano, un favore (sopratutto un favore) dal potentissimo segretario.
No, Hammamet non rivaluta nulla e nessuno, non si cerca di ricostruire la figura di Craxi, anche perché è limpidissimo il modo di procedere, c'è un uomo solo che non accetta la fine, che teme di essere dimenticato, superato. Un uomo malato e destinato alla morte che si rende conto di aver creato dei mostri, di come l'abbiano tradito e raccolto la sua eredità senza nominarlo mai.  Un uomo che grida alla figlia di far entrare nell'ambulatorio dell'ospedale i fotografi e scopre con amarezza che non c'è nessuno.
Inesorabile arriva il declino, la fine amarissima, e laddove un vero grande statista fa i conti con i suoi errori, il padre di tutta la ciurma di avventurieri della politica nega ogni colpa e responsabilità.
Certo Favino è memorabile, ma non è solo un gioco di imitazione, la sua recitazione è ricca di sfumature ed è lui a render umano e toccante in alcune scene Craxi, non la sceneggiatura che invece procede mostrando la caduta pezzo per pezzo. Fino ala sogno in cui la morte e la mortificazione sono rappresentate da due guitti che fanno battute di pessimo gusto ai livelli del Bagaglino, di fronte a un pubblico feroce e arricchito, quella platea che batteva le mani all'uomo forte e che poi è pronta ad abbandonarlo al suo destino.
Basta questo per farci capire l'importanza di questo ottimo lavoro.

martedì 7 gennaio 2020

Pinocchio di Matteo Garrone

Qualche tempo fa scrissi un post o forse girai un video in difesa del romanzo italiano del 1800.
Parlando dei Promessi Sposi e dei Vicere cercai di far notare come la nostra produzione letteraria di quel periodo non fosse così povera, provinciale, risibile, ma al contrario ricca di opere e scrittori degni di nota. Certo in Russia, giusto per far un esempio, si pubblicano opere leggendarie capaci di porsi come basi per tutta la letteratura del periodo successivo, questo vale anche per la Gran Bretagna, tuttavia le nostre opere non sono da meno e a modo loro son riuscite a trovar un certo spazio anche fuori dagli italici confini. Un esempio è proprio Pinocchio, opera scritta da Carlo Collodi e pubblicata a puntate tra il 1881 e il 1882, col titolo di Storia di un burattino, infine pubblicata a Firenze nel 1883. Fa parte di quei libri per l'infanzia con  fini educativi tipo Cuore, oggi forse potremmo criticarli perché "moralisti e bigotti", ma vista la pochezza morale, etica, sociale dei nostri tempi, direi che pur datati sotto certi aspetti, i libri come Pinocchio sono ancora oggi importanti e fondamentali, perchè la loro bellezza va oltre alle polemiche e alle scemenze che si possano dire sul suo conto.
L'opera letteraria ha talmente tanto successo da conquistare lettori in ogni parte del mondo, diventando oggetto di adattamento cinematografico. Sicuramente il film d'animazione della Disney, lo sceneggiato Rai di Comencini, hanno aiutato molti giovani e giovanissimi lettori ad avvicinarsi al libro di Collodi, quello che importa è che una storia tanto bella e a modo suo commovente, trovi di nuovo spazio tra le produzioni cinematografiche (alle quali suggerirei di trasportare sullo schermo anche il romanzo per ragazzi e bambini del nipote di Collodi "Sussi e Biribissi) non tutte sono riuscite o memorabili, a me per esempio non è piaciuta la trasposizione di Benigni, ma dobbiamo dar atto che Garrone ha centrato in pieno l'obiettivo donandoci un film assolutamente bellissimo, in perfetto equilibrio tra il suo stile e il rispetto per l'originale.
La nuova versione ambienta la storia in un "non luogo" in cui un realismo sporco, misero,povero, convive naturalmente con la bizzarria di creature magiche, esseri surreali, come se facessero tutti parte di un unico universo, quasi sempre dominato dal grigio, in un tempo e uno spazio fisico e spirituale in cui ogni cosa par addormentata, sospesa tra il dormiveglia. La rappresentazione del paesino di Geppetto non lascia spazio a romanticismi di sorta. Le strade sono sporche e le case povere,  un posto abitato da bottegai avidi e poveracci. Tra questi si muove il buon Geppetto, interpretato benissimo da Benigni. Costui dona al personaggio una grande e toccante umanità, fa trapelare tutta la solitudine, tristezza, di questo uomo che troverà sollievo nella creazione di Pinocchio. Benigni sfrutta al meglio anche la sua presenza fisica. Nella bellissima scena iniziale, infatti, lo vediamo mentre cerca di ottenere un lavoretto presso un oste. In pochi minuti veniamo a sapere della sua condizione sociale ed economica e impariamo a volergli bene per la sua dignità che non sfocia mai in un insensato martirio o nella perdita di orgoglio. Garrone e Ceccherini, riscrivono il personaggio donandogli lo spessore di essere umano e non solo del padre del popolare burattino.
Il film ha una sua anima leggermente e vagamente dark, anche quando le scene sono ambientate sotto il sole, rendendo ancor più importante il messaggio dell'opera. Quasi una esortazione a esser curiosi, avventurarsi nel mondo, comprendere che la ricerca del nostro posto e della felicità ci porta a scontrarci con sofferenze e personaggi negativi, ma che la salvezza è sempre vicina, a portata di mano forse no, però abbiamo sempre l'occasione di ripartire e correggere i nostri errori. Ecco, errori.
In un certo senso mi garba pensare che la storia di Pinocchio sia quella di un personaggio che sbaglia tantissime volte, si mette nei guai per via di questi sbagli, ma non lascia mai l'amore, nel suo senso più alto e nobile, fuori dalla sua vita. Il fantasma della bambina, la Fata Tuchina, è simbolo di questo: amore, ma sopratutto perdono. Nonostante veda che Pinocchio si infili nei guai, non riesca a star lontano dalle tentazioni, sia troppo ingenuo per il mondo che lo circonda, ella continua a perdonarlo e ad aiutarlo, senza giustificarlo, ma amandolo.  Garrone e Ceccherini scrivono un'ottima sceneggiatura in cui ogni personaggio ha un lato di dolente umanità, anche il Gatto e la Volpe, per quanto farabutti, sono vittime della miseria e a modo loro formano una sorta di famiglia. Rocco Papaleo e Massimo Ceccherini sono straordinari in questi ruoli.
Sono felicissimo del ritorno di un attore che ho sempre stimato come Massimo Ceccherini, a mio avviso quando trova un ottimo regista è capace di donarci delle performance assolutamente degne di nota. In questo caso, come ho già fatto notare, è anche co-sceneggiatore del film, ribadisco a costui i miei complimenti in entrambi i ruoli (che poi sai che se ne fanno dei complimenti di un semplice spettatore tuttavia credo possano sempre far piacere a chi ha dedicato tempo e vita per un progetto in cui ha creduto, per questo i complimenti valgano per tutti dal cast degli attori fino a quello tecnico) .
Pinocchio potrebbe sembrare un film diverso rispetto a quanto fatto da Garrone fino ad oggi, ma in sostanza riprende il discorso de Il Racconto dei Racconti, ponendo sul fantastico una visione personale e convincente.
Non resta che andarlo a vedere al cinema e lasciarsi conquistare e guidar per mano da Garrone e la sua ottima compagine di attori e attrici, ognuno/a capaci di donar qualche cosa al personaggio.