Perchè noi viviamo in pieno regime democratico,hai tutte le tue magnifiche tecnologie, pensa puoi scrivere e dire quello che vuoi, forse, e voti eh! Lascia stare che poi anche alcuni da te considerati dei dittatori cattivissimi sono stati eletti,ma a noi non piace affatto che i popoli scelgano gente che sta sul cazzo a Mamma Europa e a Papà Nato,quindi....
Tempi complessi,complicati,dove le parole sono ormai svuotate e vuote. A furia di dire cazzate epocali,da dementi dell'orrore come: " fatti,non parole" ci ritroviamo in un mondo dove la reazione fascista e capitalista diventa rivoluzione.
Tempi confusi,amica mia. Molto confusi. E non quella che per Mao era ottima compagna per poter agire in concreto e da veri rivoluzionari,no.
Sai cosa ci servirebbe? Un po' di stabilità. Mi chiedi : dove la trovo , io, la stabilità? Ti risponderei; nel lavoro e negli affetti.
Un lavoro fisso,sicuro,significa poter elaborare progetti per te e la tua famiglia. Significa indipendenza e aver un ruolo sociale ben preciso. Essere riconosciuti per quello che sei e fai. La stabilità negli affetti significa lottare per la felicità dell'altro,condividere gli abissi e le meravigliose giornate di sole, non nasconderci nulla e rispettarsi,sostenersi.
Queste cose mancano totalmente nella nostra bella società , la stessa che vorremmo mettere anche usando fascisti e gentaglia di ogni risma in altre nazioni. Si,dai: tutti precari,stressati, deboli,questo ci piace.
La precarietà è stata una invenzione politica ed economica per disorganizzare completamente e totalmente l'unità dei lavoratori sul posto di lavoro,ma non solo: anche in casa. Una persona senza lavoro,o che è soggetta a continui cambiamenti, periodi di inattività e altri di lavoro sporadico,che tipo di persona è per te? Solare,allegra, ben disposta? Proletarizzando settori di classi medie aumenti il numero di scontenti.
Certo nascosti dietro all'apparente benessere materiale, ma dura poco anche questo.
Perchè come fai a mantenerti se hai un lavoro precario o se peggio ancora non trovi nulla? Sopratutto come farti abituare all'idea che la tua certezza di essere parte della società giusta,benestante, che non ha problemi- mica siamo operai e proletari- sia crollata?
Il capitalismo è un sistema feroce, che si rinnova per la sua sopravvivenza e quando lo fa chiede sacrifici. Anche a chi l'ha sempre servito fino a poco prima. Non contiamo un cazzo noi esseri umani in questo sistema e come bestie al macello ci donano degli svaghi,persino ci dicono come fare opposizione e sentirci ribelli. Ma siamo una mandria. Amorfa, disorganizzata, inviperita,addolorata o rincoglionita. Si sono persi tutti i nostri diritti senza dire nulla o sbraitando slogan.
Questo bellissimo,urgente,fondamentale,imperdibile , film parla di questo.
Una famiglia della medio alta borghesia, gente di un certo livello e di un certo tenore di vita che improvvisamente scopre l'altra faccia della medaglia del loro paradiso in terra,quando lui viene licenziato. Fatto fuori dai soci,tra cui uno di questi è un " grande amico da tantissimo tempo" Ma non c'è amicizia, non c'è amore, non c'è solidarietà quando cadi.
E qui si racconta proprio di questo: una caduta.
Da una parte sei troppo qualificato, in famiglia si vergognano se ti vedono fare dei lavoretti- per razzismo classista che in questo film viene denunciato e mostrato benissimo- perdi la voglia di fare,di esser combattivo,vivo,umano.
Così la moglie si mette a lavorare, tenta di farsene una ragione, non sempre ci riesce. La figlia ha una sua vita e il rapporto con il padre non è tra i migliori
Perchè poi questa crisi sul lavoro mette in chiaro anche la crisi famigliare e di coppia: ci conosciamo? Sappiamo sostenere l'altro? Lo capiamo? No,oppure si..ma male,molto male.
La pellicola è lucida,cruda, mostra con estrema chiarezza di tesi e profonda riflessione socio-politica,quello che siamo diventati.Nella verità e nella realtà. Per me siamo anche peggio. Ma tanto peggio. Però il film è già una mazzata che non ti lascia scampo e ti toglie il respiro. Meglio non esagerare.
Soldini mischia echi dei Dardenne e un pizzico di Loach, gira con stile nervoso e pesantemente fisico,concreto. I gesti di un superbo e memorabile Albanese,arrivano diretti allo spettatore. La rabbia,il nervoso,il sentirsi inutili e senza redenzione, Quando cerca di mettere la carta da parati da solo, o spacca le bottiglie di plastica, e i litigi: tra i migliori portati sullo schermo in un film italiano. Così cattivi, con la volontà di fare e farsi male,come succede nella vita. Ed è giustissimo che il cinema riprenda e riproponga la nostra vita.
Perchè c'è bisogno di riflettere,comprendere, non farci ingannare da queste lotte assurde tra capitale e populisti allo sbaraglio le quali non fanno altro che spostare l'attenzione reale su problemi fasulli.
Dovrebbe esser visto e discusso questo bellissimo film. Interpretato con una tale adesione al personaggio e credibilità da tutto il formidabile cast , da risultare più reale del vero. Margherita Buy si conferma la nostra migliore attrice, come anche Alba R. che poco dopo sarà protagonista assoluta del riuscitissimo " Cosa voglio di più", fino a Battiston e altri. Tutti in parte. Serviti da una sceneggiatura perfetta, sostenuti da una regia precisa e in stato di grazia.
Film che mischia crisi del privato come proseguimento di una crisi generale del lavoro,della mancanza di riconoscimento sociale della figura del lavoratore. Cosa contano oggi? Protestano,salgono sui tetti,hanno un momento di attenzione paternalistica e i discorsi vuoti dei rivoluzionari un tanto al chilo o dai politicanti di turno,ma il sistema capitalista è dal lontano 1989 che sta smantellando ogni piccola conquista dei lavoratori e delle classi subalterne. Non solo,ora reputa che pure la borghesia media o medio alta possa esser sacrificata ai cambiamenti , contraddizioni, lotte intestine , insite nella vecchia e ingloriosa democrazia liberal-capitalista.
Gli sciocchi non vedono questo e infatti eccoli tutti uniti a festeggiare per l'Ucraina,contenti loro.
Un monito, questo film ci ricorda cosa siamo da un bel po'. Cosa siamo diventati e cosa continueremo ad essere. Senza lavoro e stabilità la vita diventa durissima,senza stabilità negli affetti- meglio aver la lista della spesa delle trombate per vantarci al bar,piuttosto che una donna o un uomo per tutta la vita. Ma va là: moderni,dinamici,avanti dai- non potremmo mai avere un minimo di pace e sostegno.
Questo film è l'atto più rivoluzionario che il cinema italiano abbia mai fatto,dopo i film di Petri. Non perdetelo .
Questa la recensione di Valentina
Soldini è uno dei pochi registi in Italia che è in grado di fare quel cinema realista che, in passato, è stato uno dei capisaldi del nostro Paese. Ma Soldini ha uno sguardo speciale sulla realtà, uno sguardo che fa del minimalismo il suo punto di forza; il suo è un cinema fortemente descrittivo che narra per accumulo di elementi, un cinema specificatamente incentrato sulla quotidianità e che parte proprio da quella per farci percepire in maniera fortissima il divario tra aspirazione e realtà.
In questa pellicola lo fa parlando della degenerazione el lavoro, sottolineando come questo sia indispensabile ed imprescindibile per la dignità umana, a pochi anni di distanza lo farà, in Cosa voglio di più, parlando delle relazioni e sottolineando come la degenerazione di un rapporto si sostanzi nell'assenza di dialogo e nell'incomunicabilità. Questi due film, in un certo senso, costituiscono un dittico e sono, a mio avviso, le due opere più riuscite di Soldini.
In Giorni e nuvole il regista, avvalendosi di un ottimo cast, riesce a far percepire allo spettatore l'angoscia ed il senso di impotenza che deriva dalla perdita del lavoro e dalla conseguente perdita della propria posizione sociale. È commovente, infatti, come il personaggio di Albanese, orgoglioso fino in fondo, si rifiuti di far apparire all'esterno la condizione in cui verte e continui a voler mantenere lo stesso tenore di vita pur di non ammettere, davanti agli altri, il fallimento. E tutto questo avviene trincerandosi dietro un'incomunicabilità totale che porta ad escludere tutti quelli che gli stanno intorno, a partire dalla moglie che viene tenuta all'oscuro della situazione il più a lungo possibile. E Soldini fa capire benissimo come la perdita del posto di lavoro porti, piano piano, ad un abisso di disperazione che investe la totalità della vita dell'individuo facendo degenerare tutto: il dialogo con la moglie si perde totalmente (o, forse, non c’è mai stato), i litigi con la figlia si fanno sempre più esacerbati, l'improvvisazione di un mestiere che non si sa fare porta a non tener fede agli impegni presi e così via. Ma Soldini, nei suoi film, lascia sempre un barlume di speranza, un finale che non pretende di essere il classico lieto fine ma che lascia aperta la possibilità di recupero, che lascia intuire che, forse, il modo di risollevarsi si può ancora trovare, che forse un modo esiste sempre.
E’ interessante il fatto che questa pellicola non scelga di analizzare la perdita del lavoro di chi vive la propria vita in una situazione di precariato e fa parte di una realtà sociale bassa, persone che, anche col lavoro, stentano ad arrivare a fine mese. Il regista sceglie invece di analizzare l’impatto che questa condizione ha su quella che, un tempo, avremmo definito borghesia abbiente e che, per semplificare, potremmo continuare a chiamare così anche se ritengo questa definizione totalmente impropria e superata. Quella al centro della vicenda è una famiglia agiata, di estrazione culturale medio alta, con la barca ormeggiata al porto e la donna delle pulizie che si occupa della casa mentre la moglie può permettersi di prendere una laurea e lavorare senza percepire retribuzione, e che, improvvisamente, si ritrova a fare i conti non soltanto con un declino economico ma, soprattutto, con la perdita del proprio status sociale, testimoniato dalle vacanze in luoghi esotici e dalle cene da 200 € offerte agli amici; oltretutto la perdita del lavoro al centro del film non è dovuta alla contrazione del mercato del lavoro ma ad un diverbio tra il protagonista e i suoi soci circa la diversificazione della produzione dell’azienda e la delocalizzazione del lavoro fuori dal territorio nazionale.
L’ottima sceneggiatura (frutto della collaborazione del regista con la solita Doriana Leondeff, oltre a Francesco Piccolo al soggetto e Federica Pontremoli alla sceneggiatura) riesce a compattare una storia che fa dell’accumulo di episodi, particolari e personaggi il suo punto di forza, senza mai disperdersi ma rendendo efficace e diretto il messaggio e suscitado nello spettatore un’empatia molto forte.
Come dicevo in apertura, considero Soldini uno dei pochi registi capaci di fare un cinema realistico oggi, ma vale la pena soffermarsi un attimo su questa definizione perché spesso mi viene da chiedermi se realismo e critica sociale siano indissolubilmente legati o se possano sussistere separatamente. E la risposta, guardando questa pellicola, è che le due cose sono imprescindibili. Un’osservazione attenta della realtà che ci circonda contiene inevitabilmente il seme di una critica sociale anche se questa non è evidentemente espressa, come in questo caso, perché spinge lo spettatore a riflettere fornendogli gli strumenti di analisi per farlo, senza che la conclusione di tale riflessione sia imposta ma delegandola alla sensibilità di ognuno di noi. E quando la visione di una pellicola si conclude lasciandoti domande invece che risposte io credo che il film sia pienamente riuscito.
Vale
Inviato da iPad
Soldini è uno dei pochi registi in Italia che è in grado di fare quel cinema realista che, in passato, è stato uno dei capisaldi del nostro Paese. Ma Soldini ha uno sguardo speciale sulla realtà, uno sguardo che fa del minimalismo il suo punto di forza; il suo è un cinema fortemente descrittivo che narra per accumulo di elementi, un cinema specificatamente incentrato sulla quotidianità e che parte proprio da quella per farci percepire in maniera fortissima il divario tra aspirazione e realtà.
In questa pellicola lo fa parlando della degenerazione el lavoro, sottolineando come questo sia indispensabile ed imprescindibile per la dignità umana, a pochi anni di distanza lo farà, in Cosa voglio di più, parlando delle relazioni e sottolineando come la degenerazione di un rapporto si sostanzi nell'assenza di dialogo e nell'incomunicabilità. Questi due film, in un certo senso, costituiscono un dittico e sono, a mio avviso, le due opere più riuscite di Soldini.
In Giorni e nuvole il regista, avvalendosi di un ottimo cast, riesce a far percepire allo spettatore l'angoscia ed il senso di impotenza che deriva dalla perdita del lavoro e dalla conseguente perdita della propria posizione sociale. È commovente, infatti, come il personaggio di Albanese, orgoglioso fino in fondo, si rifiuti di far apparire all'esterno la condizione in cui verte e continui a voler mantenere lo stesso tenore di vita pur di non ammettere, davanti agli altri, il fallimento. E tutto questo avviene trincerandosi dietro un'incomunicabilità totale che porta ad escludere tutti quelli che gli stanno intorno, a partire dalla moglie che viene tenuta all'oscuro della situazione il più a lungo possibile. E Soldini fa capire benissimo come la perdita del posto di lavoro porti, piano piano, ad un abisso di disperazione che investe la totalità della vita dell'individuo facendo degenerare tutto: il dialogo con la moglie si perde totalmente (o, forse, non c’è mai stato), i litigi con la figlia si fanno sempre più esacerbati, l'improvvisazione di un mestiere che non si sa fare porta a non tener fede agli impegni presi e così via. Ma Soldini, nei suoi film, lascia sempre un barlume di speranza, un finale che non pretende di essere il classico lieto fine ma che lascia aperta la possibilità di recupero, che lascia intuire che, forse, il modo di risollevarsi si può ancora trovare, che forse un modo esiste sempre.
E’ interessante il fatto che questa pellicola non scelga di analizzare la perdita del lavoro di chi vive la propria vita in una situazione di precariato e fa parte di una realtà sociale bassa, persone che, anche col lavoro, stentano ad arrivare a fine mese. Il regista sceglie invece di analizzare l’impatto che questa condizione ha su quella che, un tempo, avremmo definito borghesia abbiente e che, per semplificare, potremmo continuare a chiamare così anche se ritengo questa definizione totalmente impropria e superata. Quella al centro della vicenda è una famiglia agiata, di estrazione culturale medio alta, con la barca ormeggiata al porto e la donna delle pulizie che si occupa della casa mentre la moglie può permettersi di prendere una laurea e lavorare senza percepire retribuzione, e che, improvvisamente, si ritrova a fare i conti non soltanto con un declino economico ma, soprattutto, con la perdita del proprio status sociale, testimoniato dalle vacanze in luoghi esotici e dalle cene da 200 € offerte agli amici; oltretutto la perdita del lavoro al centro del film non è dovuta alla contrazione del mercato del lavoro ma ad un diverbio tra il protagonista e i suoi soci circa la diversificazione della produzione dell’azienda e la delocalizzazione del lavoro fuori dal territorio nazionale.
L’ottima sceneggiatura (frutto della collaborazione del regista con la solita Doriana Leondeff, oltre a Francesco Piccolo al soggetto e Federica Pontremoli alla sceneggiatura) riesce a compattare una storia che fa dell’accumulo di episodi, particolari e personaggi il suo punto di forza, senza mai disperdersi ma rendendo efficace e diretto il messaggio e suscitado nello spettatore un’empatia molto forte.
Come dicevo in apertura, considero Soldini uno dei pochi registi capaci di fare un cinema realistico oggi, ma vale la pena soffermarsi un attimo su questa definizione perché spesso mi viene da chiedermi se realismo e critica sociale siano indissolubilmente legati o se possano sussistere separatamente. E la risposta, guardando questa pellicola, è che le due cose sono imprescindibili. Un’osservazione attenta della realtà che ci circonda contiene inevitabilmente il seme di una critica sociale anche se questa non è evidentemente espressa, come in questo caso, perché spinge lo spettatore a riflettere fornendogli gli strumenti di analisi per farlo, senza che la conclusione di tale riflessione sia imposta ma delegandola alla sensibilità di ognuno di noi. E quando la visione di una pellicola si conclude lasciandoti domande invece che risposte io credo che il film sia pienamente riuscito.
Vale
Inviato da iPad