venerdì 30 giugno 2017

OKJA di Bon -Joon- Ho

Io e mia moglie abbiamo risolto il problema Netflix/cinema nel modo più semplice possibile: abbiamo un magnifico telo in salotto, e un proiettore. Così ci vediamo film e telefilm su grande schermo. Cambia tutto. Come cambia veder un film al cinema, in sala. Un bellissimo rito pagano di condivisione di una emozione, paura, rabbia, di risate e lacrime. Detto questo, non possiamo che ringraziare Netflix per le ottime cose che ci offre, facendo - a modo suo- anche un ottimo servizio per il cinema e i cinefili: io ho conosciuto film e registi grazie a loro.
Però se uno ama il cinema,  appena possibile va in sala, se ami i film puoi vederli anche sul cellulare eh! Fine polemica, mi auguro di non leggere cazzate atroci come quelle su libri di carta ed ebook. Mi auguro.
Però non sono qui per parlare di questa ennesima sterile polemica, ma per dedicare il giusto tempo a questo bellissimo film.
Non è facile girare una manciata di film e tutti a livelli alti, con almeno un paio di capolavori, nel vero e reale senso del termine. Non è nemmeno facile passare da un genere all'altro, toccare anche il cinema quello più serio o la commedia nera più corrosiva, mantenendo sempre uno stile e una identità riconoscibile.Non è facile per molti, ma non per Bong -Joon- Ho
OKJA è un film che deve essere visto con calma e capito. Perché molto probabilmente una prima visione potrebbe farvi perdere la complessità della trama e dei messaggi, ben presenti nella pellicola del maestro coreano.
Fa parte di quei film che sembrano leggeri, ma in reealtà nascondono una profonda anima e tesi politiche-sociali di grande impatto.
Come vedere un classico film di Spielberg, ma girato da un regista che ha anche una visione politica ben definita e sa benissimo contro chi usare il cinema per denunciare al mondo brutalità, disumanità,  e come il potere le nasconda in vari modi: la polizia, in "memories of a murder", la scienza in the host, la famiglia in "Mother" e ora l'idea di un capitalismo ecologico, rispettoso ,biologico. Questa è un'idea davvero ottima e straordinaria per fare cinema che non intrattenga soltanto.  Bong Joon-Ho punta il dito sul capitalismo riformato e riformista che piace tanto anche a certuni/e in quella che per pietà umana chiamiamo sinistra, ma che in sostanza è un'accozzaglia di liberali allo sbaraglio
Il capitalismo riformista non esiste. Trattasi di inganno per le masse, perché dietro alle belle parole e idee di Lucy Mirando e della sua azienda, c'è un trattamento orribile delle povere bestie col fine di farne carne da vendere e incassare tanto. Dietro al tizio strambo della tv che fa un programma dove par che ami e si diverta a stare a contatto cogli animali, c'è un alcolizzato che fa male ad essi
Per denaro, profitto, produzione. In nome di questa Sacra Triade possiamo anche sfruttare una ragazzina coreana e la sua Okja.  D'altronde cosa potrebbe convincere meglio milioni di spettatori, consumatori, clienti, che la visione di una bella storia d'amore tra una bimba e un animale? Le emozioni, di questi tempi, servono per fare profitti, denaro, produrre.
Per cui anche un sentimento nobile serve al mercato libero, e per questo- solo per questo- che si sopporta una ragazzina straniera e quella bestia buona solo per farci generi alimentari.
Questa cosa viene descritta per ben due volte, prima dal nonno e poi dal veterinario/ stella della tv, come a svelare agli spettatori stessi l'anima del film: non lasciatevi ingannare dalle immagini di amicizia tra Okja e la sua padrona. Non è un film Disney,  qui bambini e animali si fanno male.
Gli fanno male.
Perché tutti gli adulti ingannano la piccola e di conseguenza anche la povera scrofa gigante.
Lo fa il nonno, non dicendo che verranno a portare via Okja, lo fanno quelli della Mirando, Lucy in testa, lo fanno anche gli animalisti, in nome della loro sacra missione
Il messaggio è chiaro: solo i bambini nella loro sacra ingenuità, che poi è giustezza e forza di spirito all'ennesima potenza e le bestie, non possono mentire. Solo loro sono capaci di un amore forte e incondizionato, non rovinato dalla rinuncia, dalla rassegnazione,, dalle leggi di mercato che ci schiavizzano tutti. Colla gravissima e imperdonabile colpa di renderci disumani, convinti di provare amore e affetto, ma essi stessi sono prodotti e soluzioni pensate in qualche riunione di una qualche multinazionale.

Un poeta, tanto tempo fa scrisse una bellissima canzone. Una delle strofe si chiudeva con questa frase: " guardami dentro gli occhi / gli occhi che erano bambini" Ecco dovremmo riprendere questa abitudine di dar spazio e giustizia al nostro sguardo. Dovremmo riprendere quella forza naturale dei bambini di guardare le cose in modo netto, limpido, tagliente, sia nel bene che nel male. E guardare gli occhi di chi riteniamo non sia un essere umano, per vedere quanto dolore, paura, "commozione" nascondino . Non parlo solo di animali, ma anche di altri esseri umani che per colpa di non essere nati nelle nostre città, non appartenere alle nostre classi, o esser diversi da noi, consideriamo come spazzatura umana: che crepino, chi se ne fotte.
OKJA è un film a misura di occhi bambini.  Ci insegna la meraviglia dell'amore, di un rapporto profondo, forte, sincero.  Ci costringe a piangere, perché di fronte al macello, di fronte all'urlo di migliaia di maiali, di fronte a dei genitori che si sanno condannati e ti chiedono: per pietà, salva almeno il nostro cucciolo, non possiamo non piangere. Ognuno a modo suo, ma cazzo se siamo esseri umani normali, lì si piange per forza.
Il mattatoio come il campo di concentramento.  Il destino di esser macellati, con quello, certo, di passare per il camino. Si, è un azzardo, forse anche troppo, ma a me il pre finale ha fatto pensare a questo: la meccanizzazione della morte, l'omicidio per finalità che si pensano importanti e inevitabili, l'uso di sottoproletari o persone che obbediscono agli ordini e basta.
Eppure, sono sicuro, che la foto di Okja colla sua padrona, ha toccato il cuore dell'uomo preposto alla eliminazione dei suini, così come anche gli altri lavoratori che dicono alla piccola di non stare lì, o il personaggio di Dano, che si preoccupa di non far vedere una scena forte alla piccola.
Come se per pochissimo tempo, grazie a lei si riscopra il senso della compassione per ogni essere vivente.
Bong Joon-Ho riesce a non farne un film didascalico, almeno non del tutto, a mescolare denuncia e opera sentimentale, perché è un film scandalosamente  sentimentale.
Opera che tocca i cuori, e le menti degli spettatori, pellicola che ci fa commuovere, indignare, e che ci dona due personaggi indimenticabili, i quali vivranno per sempre nel nostro cuore di spettatori indisciplinati e occhialuti romantici.

martedì 27 giugno 2017

RAMAN RAGHAV 2.0 di Anurag Kashyap

Raman Raghav è un feroce serial killer che ha svolto la sua attività di ammazza persone in India nei lontani anni sessanta. Questa opera nerissima, crudele e di rara ferocia, riporta sullo schermo le gesta di questo pazzo furioso attraverso gli omicidi di un folle assassino, nella Mumbai odierna.  Una reincarnazione? Un emulo? Non proprio direi, piuttosto il risvegliarsi ed esplodere di tanta rabbia, violenza, disumanizzazione, cinismo, crudeltà, ben rappresentate nella società e nel mondo dove si muovono i protagonisti.
Una specie di cattivo incubo e coscienza sporca collettiva che torna di nuovo a chiedere il suo tributo di sangue, terrore, morte. A combattere contro questo demonio sotto sembianze umane, come sempre, ci dovrebbe essere un eroe.
Tormentato, con grossi problemi, ma alla fine , cazzo : dateci un eroe. La sua figura ci rassicura, ci dona sollievo e voglia di credere nel genere umano.
Ecco; e se l'eroe fosse uno sbirro corrotto, drogato,  potenziale omicida pure lui? Come possiamo respirare se tutta codesta cupezza e tragicità ci trascinano nelle tenebre più profonde del cuore umano?

Film spiazzante che segue le regole del genere, guarda a quello che succede nel cinema americano, i titoli di testa e certe soluzioni più "commerciali",  ma usa il genere per far una critica radicale a una società di assassini, corrotti, devastata dal crimine e dall'impossibilità di provare empatia, amore, verso i prossimi. Il killer uccide convinto di ripulire il mondo, in una visione distorta e che nulla c'entra colla religione, come - al giorno di oggi- fanno molti criminali che si nascondono dietro a dio. Qui, semmai, si avverte la mancanza di una divinità, di una forza collante collettiva, di un vago senso di giustizia. Viviamo e crepiamo, male, in un brutale e sadico inferno, ecco la verità.
Verità che ci stordisce attraverso le immagini, perché Kashyap è un regista che sa come metter per immagini deliri, incubi, violenza. Non eccede nello splatter, nel gusto pacchiano per il morboso e sensazionalistico.  La violenza è implacabile, cruda, possiamo anche tenere fuori campo il martello che rompe una testa, basta il gesto, lo sguardo, la postura del killer, per provare dolore, sofferenza e paura.
Dicevo film spiazzante perché l'assassino lo prendono nei primi minuti. Lui si consegna e spiega per filo e segno quello che ha fatto. Non viene creduto e dopo un po' di sevizie, viene rilasciato.
La polizia: ecco, l'opera ci tiene a specificare che forse è meglio farsi ammazzare dal killer che avere a che fare colle forze dell'ordine. Violenti, inetti, per nulla rassicuranti ci appaiono gli sbirri in questa pellicola, tenendo presente che il poliziotto protagonista è la summa di tutti i peggiori difetti umani, e non solo
Infatti la pellicola punta tantissimo, a volte risultando parecchio forzata come scelta, sul dire che assassino e poliziotto sono uguali. Come se fossero entrambi parte di una stessa orribile persona. Vi è un rapporto non tanto, o solo, di cacciatore e preda, ma quasi di collaboratori, di amici fraterni, anche se non messo in scena in modo così didascalico e - oggi mi piace scriverlo- pacchiano.
Raman Rghav 2.0 è un bellissimo thriller, che usa benissimo anche le canzoni presenti nella colonna sonora per creare immagini di rara ferocia e disturbo
Perfetto come puro intrattenimento, ai livelli dei migliori horror/thriller sui psicopatici dalla nazione che ha il brevetto e copyright in fatto di serial killers: l'America, e opera inquietante che svela l'orrore della società indiana, tanto uguale alla nostra e rispolvera il tema del doppio, della parte mancante, del sottile confine tra bene e male, con gran senso del ritmo, dello spettacolo.
Film che andrebbe visto e rivisto, per lasciarsi travolgere da tanta gioia e amore!

lunedì 26 giugno 2017

CANNES A FIRENZE: LE CINQUE GIORNATE FIORENTINE E LA MARATONA DI DUE CINEFILI

La cosa bella, buona, giusta, di vivere in una città ricca di eventi e cultura come Firenze, è l'imbarazzo della scelta, le varie opportunità, la scoperta di opere e artisti, che par illimitata, eterna, insomma, in poche parole: tenetevi la calma immobilista e pleonastica della campagna, che noi ci teniamo il disordine sociale, le orde di turisti, ma anche la Grande Bellezza di esser circondati da eventi culturali e artistici di grande spessore.

Ora, Firenze ha numerosi e bellissimi cinema. Noi, inteso sia come me, che come me e mia moglie, amiamo andare al cinema. Si, perché vi è una profondissima differenza tra vedere un film su schermo gigante oppure su un tablet o computer, tanto crediamo in questa cosa che pure a casa abbiamo, invece di una tv, un proiettore e un telo. Per veder Netflix come se fossimo al cinema.
Per cui con grande gioia aspettiamo l'estate: si va all'arena estiva di Campo di Marte, ma questo anno di avvenimenti ce ne sono davvero molti
Uno è proprio questa settimana dedicata a Cannes, alla Quinzaine - e non solo: un fuori concorso, un anniversario, tre in cocnorso- perché a detta degli stessi organizzatori, in questa edizione le cose interessanti si trovavano lì. Un totale di 11 film, uno proiettato due volte, ma va bene così.

Ci dovrei mettere mesi e mesi per scrivere le emozioni, la gioia, la rabbia sociale e civile, che ho provato vedendo codeste pellicole. Ognuna di esse meriterebbe un post a parte, ma in realtà vorrei solo incuriosirvi, sempre tenendo fede alla radice di questo blog: il punto di vista personale, soggettivo, attivo, di uno spettatore con coscienza di classe e visione, l'unico modo per parlare e scrivere di cinema, che conosco. Ma nella maggior parte siamo tutti spettatori, questo vale anche per critici- quelle persone a cui devo la mia formazione cinematografica- e cinematografari. Fallibili, schiavi di una visione parziale, e così via. Non è un difetto se usata bene, questa cosa, per cui godetevi le mie riflessioni indisciplinate, nella speranza che vi venga voglia di una visione.

LUNEDI

HOW TO TALK TO THE GIRLS AT THE PARTIES

Cominciamo male, nonostante sulla carta la pellicola facesse intendere di aver molte cose buone da proporre e mostrare: il punk, la fantascienza, un romanzo di formazione dissacrante, irriverente, l'amore che supera le barriere dello spazio.
Mitchell mi aveva in parte conquistato colla sua prima opera, se non sbaglio, "Hedwig" un buon musical, con almeno un paio di brani memorabili.
Inoltre il film è tratto da un lavoro di Neil Gaiman, autore di fumetti e libri, tra i migliori in assoluto, visto che piace anche a me, che di fumetti e roba simile interessa assai poco.
Il risultato? Un filmetto innocuo, inoffensivo, esile, insulso. L'epopea del punk, la sua rabbia scomposta e oltraggiosa, anche verso sé stesso e i suoi potenziali idoli, lascia spazio a degli idioti totali: volgarotti e scemi come non mai. I tentativi di emozionare, rimangono in superficie, come anche la natura dissacrante e irriverente.  Come se tu stessi vedendo dei ragazzini che vogliono scioccare o addentrarsi in territori che non sanno gestire.
Il film, a mio avviso, risulta tanti chiassoso quanto superfluo, non scaldando il cuore e l'immaginario di sano sovversivismo e non donando emozioni legate alla scoperta dell'amore, del passaggio all'età adulta e non stupisce col suo mischiare generi

Pellicola : fuori concorso

GLI SPIETATI

Non basterebbero nemmeno dieci volumi per poter spiegare e descrivere la fondamentale importanza di questa opera immensa ed epocale.  Un film che fa da spartiacque, che ridisegna e riforma l'epopea western. Merito di Eastwood, senza ombra di dubbio, ma mi piace rammentare che spesso dietro a un grande regista, vi è un grande sceneggiatore- categoria un po' sottovalutata, in particolare di questi tempi- e in questo caso dobbiamo davvero applaudire David Webb Peoples, per aver scritto un copione assolutamente perfetto: nella costruzione di personaggi, storia, e messaggio. Tutti e tre ben definiti e trasportati sullo schermo, e cosa ancor più importante, nel cuore degli spettatori.
"Unforgiven" è di fatto la celebrazione della Storia del Far West, e per farlo celebra e distrugge la sua Leggenda. Opera quindi che dissacra il genere che più di altri narra la gloria della nazione americana, ma con un profondissimo e intenso rispetto per quella storia e per quelle leggende
Demistifica sia la figura del bandito, che quella del cacciatore di taglie, e l'idea di giustizia che si aveva in quei tempi, ma lo fa attraverso personaggi "più grandi del cinema e della vita", parla sopratutto, per me questo è il vero tema, della disillusione e di come possa esser positiva o nociva a seconda dei casi, ma necessaria e fondamentale per resistere e stare al mondo. Ci dice che le cose vengono sempre manipolate e distorte. che il raccontare- per immagini o per iscritto non conta- è azione di menzogna, necessaria per creare quei miti che tanto piacciono alle masse di ogni classe sociale.
Un western con tutti i crismi del genere, dove  si uccide un uomo mentre è al cesso, o dove la vanteria di un giovane innamorato delle storie e delle leggende sui grandi banditi, si sgretola appena si spara a un uomo
Dissacra, perché, svela la faccia sporca e debole delle grandi narrazioni fatte dal cinema e dai romanzi su questi uomini, ma colpisce a fondo perché questo è un lavoro fatto da uomini e non da ragazzini che pensano di sconvolgere o aver qualcosa da urlare a cazzo di cane, qui si scopre il fascino di un cinema complesso, duro, amarissimo eppure anche umanissimo e straziante



MARTEDI

ALIVE IN FRANCE

Bastano dieci secondi di visione di questo documentario per comprendere la differenza fra ragazzini che giocano a far gli autori e un vero, grande, immenso, Autore.
Abel Ferrara è la versione oscura, bluesy, punk di Martin Scorsese, questa è una mia idea perché vedo una sorta di legame tra questi autori: la religione, la violenza, la musica, tanto per citare tre elementi
Alive in France è un diario di viaggio, un film concerto, una riflessione sguaiata e malinconica sul cinema e la musica.
Sono canzoni piene di esclusi, emarginati, tipi violenti, in cerca di pistole o redenzione, è omaggio alla colonna sonora dei film, come parte fondamentale per una buona riuscita del film.
Sopratutto è un distillato di Abel Ferrara: regista, musicista, amico e padre. Sembra un tizio uscito da un film anni 70 su Little Italy, eppure tra le righe vedi anche il grande uomo di cinema, l'anima tormentata e chiacchierona, entusiasta e tagliente, accomodante e iraconda, vedi anche un Uomo.
Per quelli che come amano profondamente il blues, le sue storie nerissime e rammentano i film per le colonne sonore, questa opera è da non perdere;tutta la magia del cinema meno convenzionale, più profanamente autoriale, e la passione per la musica, esibirsi davanti a persone non sempre ben disposte, lo spettacolo di anime che si ritrovano a suonare due accordi su un palco. ecco qui sta tutta la grande potenza di questa pellicola


HAPPY END
Da cosa riconosci che stai vedendo un FILM D'AUTORE  e non un film d'autore?Dal numero di colpi di tosse in sala. Che per i cinefili è tipo un punto esclamativo, un dimostrare con quanta attenzione si segue l'adorato profeta del vero e grande cinema. A giudicare dal numero di improvvise riscoperte di tosse in sala, eh devo dir la verità: QUESTO è UN FILM D'AUTORE
Ed Haneke il profeta salvatore del vero e grande cinema. Voglio subito mettere in chiaro che questa pellicola non è all'altezza di altre sue opere, ma dobbiamo anche esser seri e sinceri: qui ci troviamo di fronte all'ennesima opera importante di un autore che con implacabile coerenza porta avanti un discorso filosofico, morale, etico e anche politico, che non si abbandona mai a facili soluzioni e banalità pseudo intellettuali
Lucidissimo, chirurgico, distaccato, ma non distante, Haneke mette in scena il declino di una ricca famiglia francese attraverso il crollo fisico del loro cantiere e quello morale, fatto di separazioni, tradimenti, incapacità di amare. Una condizione che unisce i giovani - la nipotina che va a vivere nella casa del nonno, causa il ricovero in ospedale della madre- e i vecchi- il patriarca ormai deluso dalla vita, cinico per noia.
Sullo sfondo, in sottofondo, il mondo: coi suoi immigrati, che si palesano solo due volte, creando un cortocircuito interessante sia nell'opera che nei personaggi,  mentre in primo piano va in scena una nuova caduta degli dei, non causata stavolta da eventi storici spiazzanti, ma dal malessere sottile, le incapacità umane, la solitudine deviante. Non è un film che cattura subito, gli dobbiamo dare tempo e spazio, dobbiamo cercare un punto di vista nella confusione di personaggi allo sbaraglio, ma è come sempre un grande intervento sul mondo, sulle nostre esistenze. Un mondo dove si ammazzano, forse, i propri famigliari, dove ci è impossibile decidere anche della nostra morte. Dove siamo prigionieri di falsi miti e libertà. Mentre fuori bussano i dannati della terra
Pellicola in concorso

MERCOLEDI

MOBILE HOMES

Film nomade di esistenze travolte dai loro sbagli, dal stare dalla parte sbagliata della strada, senza giustificazioni o pietismi, ma semplicemente mettendo in scena  le loro vite.
Il punto di vista è quello di una madre e del suo figliolo, vagano a bordo di un furgone in compagnia di un poco di buono, malvivente di mezza tacca, legato alla donna. La quale, come tante altre donne, non riesce a troncare una relazione così dolorosa e controproducente.
Vendono roba rubata, allevano galli da combattimento e guadagnano cogli incontri di lotta clandestina, spacciano un po' di droga; nel frattempo il bambino, di soli otto anni, cresce troppo in fretta e amaramente. Fino a quando, par di potersi ricostruire una vita, seguendo un gruppo di persone che vivono nelle case mobili, come si intitola questo bel film, il quale alterna momenti di pedinamento zavattiniano e dardenniano, a immagini di rara bellezza lirica, lasciando allo spettatore la responsabilità di una risposta a questa domanda: il rapporto tra madre e figlio può persistere e durare anche quando lei è del tutto inadatta a dar un futuro economico degno al bambino? L'amore può quanto meno arginare i danni?
Il film di Vladimir de Fontenay, nome  che ho segnato perché ammaliato sia dal tema che dallo stile di questo autore, mostra e mette in scena dei fatti concreti, quotidiani. Dolorosi e duri, ma con uno sguardo che giudica senza cattiveria aggiunta.



PATTY CAKE$
Non credete mai a chi vi dice, col fare da impiegato annoiato, che il cinema non compie miracoli,, ma è solo un prodotto industriale da vendere come si vendono i contratti eni allo stand dei Gigli, ad esempio. No, signori e signore: il cinema compie grandissimi miracoli.
Io ne sono testimone e protagonista: mi sono esaltato, emozionato, arrabbiato e rattristato, vedendo e amando una pellicola che parla di hip hop, la seconda cosa che odio più al mondo, insieme al punk.
Per cui, se non stiamo parlando di miracolo compiuto dalla settima arte, di che parliamo?
L'opera narra la storia di una ragazza che fa la barista in quel del New Jersey, posto assai popolare e depresso, come parte della provincia americana, ma reso anche celebre da quel disco capolavoro, uscito mi sa trenta e passa anni fa, dei Bon Jovi.
Terra che ha visto e dato i natali anche ad altre celebri star del rock, comunque non così affascinante come New York, o Los Angeles e la California.
Qui, Patty, sogna di sfondare nel mondo hip hop, adorando come un dio il rapper Oz, e condividendo la sua passione con un ragazzo di origine indiana.  I suoi sogni di gloria devono far i conti con una realtà fatta di stenti, debiti, una nonna tanto adorata che si avvicina alla morte, e una mamma che ha lasciato alle spalle il sogno di diventare una rockstar e vive di espedienti, e di alcol. A darle una mano, oltre la nonna, anche un ragazzo afro americano che ha una spiccata attitudine artistica, ma anche forti problemi di comunicazione col prossimo.
Il film alterna momenti più crudi e realistici dove i sogni muoiono ancora prima di raggiungere l'alba a momenti più divertenti, sentimentali, che tanto piacciono al sottoscritto. Non si può e non si deve rimanere indifferenti davanti a un'opera così diretta, sentita, urgente, certo: ruffiana e tanto americana nel voler dar altre possibilità ai suoi protagonisti, ma quando è tutto fatto così bene e i personaggi sono irresistibili, che ce ne fotte? Non possiamo altro che dire: Yo! Bro!

il film è stato proiettato di nuovo venerdi 23

GIOVEDI

LA DEFENSA DEL DRAGON

Opera dai tempi assai dilatati, ad un passo dal cinema trattenuto che tanto detesto, ma che ha una sua piccola e fragile anima al suo interno, una certa partecipazione per i suoi tre protagonisti, che la rende in qualche modo interessante
Ambientato in Colombia, tratta la storia di tre amici,  uomini di strati sociali più o meno diversi, ma uniti dalla passione comune per gli scacchi e da una difficoltà di vivere la vita. Problemi di lavoro, ma sopratutto di relazione, di saper gestire i sentimenti, dar senso alle loro esistenze.  L'opera li segue nei loro giorni passati davanti a una scacchiera, al casinò, o in un negozio che si porta avanti con noia e rimpianti, pensando alla moglie defunta o non pensando assolutamente nulla.
Il quotidiano, la parte noiosa della vita, qui è protagonista assoluta. Perchè anche essa vale la pena raccontare e mostrare.
Tutto è cinema, ogni cosa è filmabile e proiettabile, senza nessun problema di sorta. Qui vediamo la vita di tantissimi esseri umani, anche la nostra volendo. Persone ormai anestetizzate a ogni sentimento, incapaci di gestirli e sopratutto: viverli.
Nondimeno la regista, verso il finale vuol donarci qualche speranza

L'INTRUSA

Continuate pure a parlar male del cinema italiano, così perché dovete per forza aprire bocca. Continuate a dire : eh, ma all'estero, continuate pure.
Intanto vi perdete la meraviglia assoluta di imbattervi in opere straordinarie come questo magnifico film.
Opera che pone domande importanti, dure da gestire e quasi impossibile da rispondere perché hanno a che fare col tema del : giusto e ingiusto, di colpe e redenzione, di aiuto e allontanamento.
A Napoli, una donna gestisce, con alcuni volontari, un centro di accoglienza per bambini. Un dopo scuola finalizzato ad allontanare i più piccoli dalla vita del camorrista,  da una vita dura e ingiusta che spesso colpisce uomini giusti e lavoratori. Qui, attraverso l'inganno, trova rifugio una donna colla sua bambina. Costei in realtà è sposata con un killer della camorra, il quale viene arrestato proprio all'interno del centro d'accoglienza. In una specie di casa affittata alla consorte.
Il ritorno alla sua " casa" da parte della donna e della figlia, fa nascere divisioni e scontri, sia tra i volontari che colle mamme degli altri figlioli e figliole.
Da una parte una donna e la sua bambina, sole, ma non del tutto in grado di inserirsi, sopratutto la madre, dall'altra la parte "onesta" che per mano di quelle persone ha perso cari o non vuole che i propri figli crescano come loro o si ritrovino al centro di incidenti fatti per vendetta contro l'occupante e la sua infante.
La pellicola ci mostra anche la voglia della bambina di inserirsi, i tentativi di far amicizia e le problematiche che trova.
Questo è il cinema che piace a me: profondamente politico e militante, civile, sociale,  asciutto, ma non privo di emozioni.
Opera che ci spinge a riflettere, a domandarci cosa faremmo noi? Quali sono i i diritti delle vittime? E chi è la vittima? L'intrusa è un titolo che possiamo legare al personaggio della madre, una vera intrusa in quella piccola oasi di vita sana e alla sua direttrice che si ritrova a non comprendere i suoi concittadini, i suoi assistenti, per una visione idealista e forse troppo radicata, ma giusta.
Per me film da vedere e far vedere, troppo importante e bello, per scegliere altre e più rassicuranti visioni.
WEST OF JORDAN RIVER

Avvertivo la mancanza di un film di Amos Gitai. La sua lucidità nel descrivere gli errori, sbagli, mancanze, tragedie dello stato israeliano nei confronti non solo dei palestinesi, ma verso anche i suoi cittadini, la sua funzione in una zona così delicata.
Lo so, questo documentario non piacerà ai liberali di ogni schieramento, a chi è convinto che l'occidente e i suoi alleati siano immuni da sbagli e tragedie, a chi non vuol vedere, approfondire, conoscere, e a quella razza di esseri umani assai curiosi che vengono denominati: lettori ben informati attraverso le ultime prove di Oriana Fallaci.
Gitai intervista politici, giornalisti, uomini e donne comuni sia israeliani che palestinesi, mettendo al centro la possibilità di legami, condivisioni, per quanto pressoché improbabili. Lo fa mostrando un gruppo di donne ebree e arabe legate dal lutto che hanno formato un'associazione dove si incontrano e cercano di uscire dal loro dolore, ad esempio.
L'autore rimpiange il fallimento della svolta voluta da Rabin, mostra l'ottusità contro producente di alcuni politici israeliani, e il lavoro di alcuni giornalisti ebrei nel favorire la conoscenza del nemico e la separazione da questi colle frange estremiste, terroriste.
 Sopratutto protagonisti sono i popoli e le persone israeliani e palestinesi, separate da odio e rancore, dall'occupazione e colonizzazione, da un sistema che censura ogni antagonismo, e da un altro che mette in testa idee assurde di martirio a un bimbo di dieci anni.
Film- documentario che andrebbe visto, rivisto, per non lasciare che la disattenzione verso gli altri rispetto a noi, vengano del tutto dimenticati e dipinti come feroci assassini , facendo di ogni erba un fascio.
VENERDI

THE RIDER
 In fin dei conti lo devo ammettere, prima di tutto a me stesso e poi agli altri: ho un profondissimo rapporto di amore e odio verso gli stati rurali e del sud degli Stati Uniti. Posti davvero orribili, con bar e attrazioni di dubbio gusto, gente ottusa e reazionaria, eppure tutto questo mi affascina anche.
Sì, quello che i borghesi americani de noantri, non capiranno mai: l'america è il paese degli elettori di Bush e Trump.  Non c'entrano hackers e robe simili, basterebbe conoscere un po' la natura rurale, bucolica, alcolica e chiusa in sé di molti stati americani.
Questo film è un piccolo gioiello, narra la storia assai triste di un giovane addestratore di cavalli e piccolo eroe dei rodei, il quale a seguito di un incidente grave forse dovrà rinunciare a cavalcare.
Intorno a lui una famiglia composta da un padre vedovo e che cerca con difficoltà ed enormi sbagli di occuparsi dei figlioli, una sorella oligofrenica, che ha bisogno di esser seguita ed amata (bellissima la descrizione del rapporto molto profonda tra costei e il suo fratello) un amico segnato a vita dopo un incidente in seguito a un rodeo dove costui cavalcava un toro, e tantissima noia di provincia, lavori all'aperto, piccole e insignificanti case, serata passate in mezzo al nulla, bevendo e cantando tristi canzoni country.
Opera malinconica, amara, ma mai troppo implacabile nel voler insistere sul dolore. Commovente quando riprende le fantasie di nuove cavalcate, o l'ultima col cavallo tanto amato.  Film  che dichiara amore verso l'epopea della figura malinconica, triste del cow boy.
Tocca il cuore attraverso primi piani di occhi equini, o espressioni dei suoi attori, trasmette un senso di perdita, e lotta per la sopravvivenza, portata avanti giorno dopo giorno, mentre ci abbandoniamo alla vita che dobbiamo vivere e non quella che amiamo veramente. Ma nessuno ci impedisce di sognare il vento in faccia, la prateria che scorre veloce, cavalcando il nostro amatissimo e fedele amico di tante imprese e vittorie, un cavallo simbolo di assoluta libertà
LOVELESS

Se avete amato e visto Il ritorno o Leviathan, già sapete cosa aspettarvi dal suo autore. Devo dir che le vostre aspettative non saranno affatto deluse.
Loveless è uno sguardo duro, crudele, amarissimo, sia sulla Russia che sui rapporti personali, mostrando un mondo vuoto di amore, cinico, spietato, incapace di prendersi cura dei più deboli che sono sempre minori
La storia narra la vicenda di una coppia in procinto di divorziare, come molti arrivano a questo punto trascinando rancori, rabbie, risentimenti. Annebbiati dall'odio, sicuramente, ma anche dalla incapacità di provare amore per sé e per gli altri: che siano consorti, genitori, figli.
Un giorno, il figlio di dodici anni della coppia scompare improvvisamente.  Questo fatto farà esplodere ancora di più i conflitti della coppia, trascinando in parte anche i nuovi compagni, mentre una squadra di volontari si dà da fare per trovare il piccolo.
Film glaciale, penetrante, doloroso, mi porta a meravigliarmi di come le persone siano in grado di farsi tanto male, nonostante forse un tempo si amassero, di come sia naturale distaccarsi dagli altri, o veder il figlio come un  peso che ha frenato le nostre libertà.
Senza amore sono tutti i protagonisti di questa meravigliosa pellicola, vittime e carnefici delle loro scelte o non scelte, di rapporti sbagliati, incapaci di costruire qualcosa di buono, profondamente distaccati verso il mondo, che si affaccia con preoccupanti notizie in tv, e gli affetti più cari.
Un film  che parla di solitudine privata e sociale, ben radicata nel nostro modo di vivere
Pessimista, duro, agghiacciante, visione doverosa per ogni cinefilo.

Il film era in concorso


venerdì 16 giugno 2017

Ugly di Anurag Kashyap

Devo esser oltremodo sincero: non ho mai approfondito la cinematografia indiana, colpa di quei pochi film che ho visto, su qualche canale come Rai Movie od Iris, e non mi erano piaciuti. Troppo occidentali per me, mi sembrava fossero prodotti studiati apposta per piacere al pubblico estero.
Una considerazione sciocca, la mia, senza ombra di dubbio. Grazie a Netflix, però sto recuperando opera molto interessanti, come questo cupissimo e doloroso film del 2014

Dimentichiamo balletti, canzoni, storie d'amore travolgente, attori e attrici fascinosi, per addentrarci nella tragica realtà di una città come Mumbai. Qui vive la piccola Khali, colla madre- una donna depressa e sconfitta- il nuovo padre, un duro e integerrimo funzionario di polizia, e il desiderio di rivedere il suo vero papà: un tizio che campa sperando di diventare una stella del cinema.
Un giorno il padre passa a prenderla, devono passare la giornata insieme. La piccola è felice.
Però c'è un piccolo problema, il papà deve passare a ritirare un copione da un suo amico che lavora nel mondo del cinema, direttore di casting per una piccola casa di produzione.
La bambina rimane in auto. Dopo poco tempo scompare.
La sua scomparsa riapre vecchie ferite, trasforma le persona in esseri avidi e affamati di danaro, tutti col desiderio di far il grande botto, di vivere una vita migliore, avere successo. La polizia indaga usando metodi violentissimi e tra il commissario e il mancato attore vengono a galla cose brutte capitate nel loro passato.
Un mondo quello descritto da "Ugly", duro, sporco, infame.  Un mondo sommerso dalla violenza, dal dolore, dal senso frenetico di rivalsa, dall'odio e da una povertà a volte estrema. Un mondo dove i bambini scompaiono a dozzine ogni giorno, venduti a indiani e stranieri, o fatti sparire per altre ragioni.In questo inferno la polizia usa metodi feroci, abominevoli, orribili
Tutti i personaggi hanno lati negativi molto evidenti, sono deboli, annaspano in una vita che nega a loro ogni barlume di luce o speranza, divorati dalla fame di denaro facile, sfruttando pure una povera bambina. L'opera mette in scena la lotta senza quartiere di persone che confondono un'indagine con il regolare i conti tra di loro, di uomini che per arricchirsi fanno di tutto, di disperati senza gloria.
Opera implacabile, radicale, dura, ma mai compiaciuta, non vi è traccia di strumentalizzazione o di morbosità.
E questo è il suo punto di forza

mercoledì 14 giugno 2017

La preda perfetta di Scott Frank

Il noir è il genere più pessimista tra tutti i generi cinematografici o letterari, ancora di più del melodramma- che spesso parla di grandissimi amori, per quanto sfortunati- o del genere horror- dove l'elemento paranormale ci permette di staccarci dalla visione, tanto son cose non vere.
Non che il noir sia verità e niente altro che verità, ma la forza con cui mette in scena un mondo perduto, sporco, crudele, senza pietà e riscatto per vittime e carnefici, tanto prima o poi gli altri siamo noi, è così radicale e radicata, messinscena o scritta con tanta ostinata rassegnazione da far apparire Leopardi uno spielberghiano ante litteram, citazione in latino a cazzo, ma va bene così.

Tratto dal romanzo del 1992, "un'altra notte a Brooklyn" dello scrittore Lawrence Block, il film è ambientato nel 1999, l'anno che portò alla fine il secolo e il millennio, anno in cui si parlava del Millenium Bug, anno che francamente è passato così, senza nulla di esaltante, a parte che tutti i cantanti dovevano per forza dire la loro sulla fine del secolo, in canzoni o dischi trascurabili.
La storia è sempre quella: un ex poliziotto, con problemi di alcol, ora si è in parte ripreso e tenta di vivere una vita normale. In passato, per fermare tre banditi, ha commesso qualcosa di orribile, che l'ha distrutto, ma ora, cerca di ricostruire una parvenza di normalità. Un giorno, un suo conoscente delle riunioni per alcolisti e drogati, lo contatta per un lavoro: scoprire chi ha ucciso la moglie di suo fratello.
Le indagini porteranno l'ex sbirro nei bassifondi della città e a lavorare per i trafficanti di droga, visto che i cattivi di turno, rapiscono, torturano, ammazzano in modo orribile, le mogli di costoro.
Qui si manifesta una regola del genere: cosa è la giustizia? Moralmente come la concepiamo? Certo le donne sono vittime innocenti di due mostri orribili, ma i loro mariti? Accettare i soldi di chi avvelena le vite di numerose persone, per soddisfare la loro vendetta o placare la loro paura, è giusto?
Il film rimane vago su questo punto, come è giusto che sia.
Per funzionare, deve anche aver degli ottimi personaggi, Qui ce ne sono almeno un paio. Il primo è inutile dirlo, è quel colosso irlandese che risponde al nome di Liam Neeson, il suo Matt Scuder entra di diritto nel pantheon degli eroi dannati del genere, perché non è una figurina ostentata come quelle di una celebre coppia di investigatori di una serie tv tanto nota e amata, quanto da me saggiamente detestata, ma è un uomo in lotta coi suoi demoni che alterna umanità a furia. Un personaggio che è pura rappresentazione del genere, ma credibile, toccante per certi versi. L'altro è quello del suo piccolo aiutante afro americano. Un ragazzino che è costretto a vivere da grande, con una bella anima sensibile ed artistica, il quale si affeziona a quel tizio che fa un lavoro così avventuroso come il dectetive privato, senza licenza.
Altra cosa importante: i cattivi. Devono essere l'emblema, il paradigma perfetto del male, e questi due assassini sadici, feroci, automi senza anima e colpa, sono meravigliosi; fanno paura e suscitano odio, voglia di vendetta
Terzo elemento: non c'è giustizia, ci si limita alla vendetta. Una vendetta quasi biblica, come se abbandonata ogni speranza, ogni appiglio istituzionale, sprofondati nella feroce solitudine che avvolge vittime e carnefici, che tanto prima o poi gli altri siamo noi, non rimanga che una giustizia altrettanto spietata. Il fine giustifica i mezzi e se per dare pace alle vittime dobbiamo superare i carnefici, ecco: siamo in pieno noir.
Scott Frank è uno sceneggiatore di tutto rispetto, tra gli altri rammentiamo Minority Report, che mostra anche mano sicura come regista.
Per chi ama il noir e le storie "dure", accomodatevi: niente originalità, ma cinema di genere robusto e ben fatto



lunedì 12 giugno 2017

TREDICI (13 reasons why)

Le piccole cose ci uccidono. Si, hai presente le battute tanto scorrette quanto divertenti su un compagno di scuola, una vicina, una collega di lavoro. Quelle cose cretine che tutti diciamo e facciamo, pronti a giustificarci con un : " ma stavamo giocando!"
Ed è vero. Stavamo giocando, perché in questa epoca nulla è serio. I moralisti li abbiamo allontanati che i profeti del nulla è vietato sono più fichi, no? Per cui che ci sarà di male a dar del frocio? Nulla, mica lo abbiamo picchiato eh! O a far credere che una ragazza sia una poco di buono? Ma si, dai! Si lamentano, però vanno in giro vestite come puttane. Anzi, ci siamo evoluti: non è il vestito, ma la percezione che colei sia un po' mignotta. E giù a ridere cogli amici, o a togliere pezzi di solidarietà femminile.
Perché, non è cosa che riguarda solo gli uomini. Spesso e volentieri le donne amano scannarsi tra di loro, deridere, offendere, emarginare.  Mica è questione di vagine o peni, no! Ma di un collettivo modo stupido di veder e considerare gli altri.
In questo campo ci è di aiuto la società peggiore tra quelle del mondo occidentale: quella americana. Con i loro rituali di balli, accettazione, gloria sportiva, esser popolari, e tutte quelle straordinarie cazzate che poi noi abbiamo riportato, adattandole alla bisogna ai nostri ideali: la virilità esibita, la donna trofeo, le spacconate al bar.
Non cambia la vittima: sempre uno o una troppo intelligente e sensibile, per poter essere apprezzato/a dalle masse di teste di cazzo.
Hannah, era una di quelle persone. Troppo vulnerabile per non farsi male, circondata da gente che sta male, ma che non vuole accettare i propri limiti e dolori, così con leggerezza alcuni e in modo criminale un bisteccone -coglione tipicamente yankee, fanno tutti molto male alla ragazza. Tutti colpevoli della sua fine.


Lei registra questo suo dolore su delle cassette : 13 atti di un doloroso, moderno, straziante, via crucis. Senza resurrezione finale. Noi conosciamo la sua triste storia attraverso le sue parole e seguendo il co-protagonista: Clay.
Ora, ve l'ho scritto più di una volta: per me il cinema, i racconti, ogni cosa, sono esperienze "sentimentali", se fai in modo che io sullo schermo veda delle persone, hai vinto!
Questo è successo con codesto telefilm, pardon: serie tv.
Il dolore di Hannah era il mio, così come la lotta di Clay per riportare le cose a posto, in qualche modo. Confuso, ingenuo, senza filtri, come i giovani sono.
Vi è una credibile rappresentazione di quel periodo della vita, del sentirsi soli e sconfitti, per cui nascondere il dolore facendo branco e difendendolo ad ogni costo. Anche rimuovendo la verità o cercando di colpire l'isolato di turno.
TREDICI ha dei personaggi scritti benissimo e la cattiveria non è mai ostentata, resa un imbarazzante marchio di " serie tv cinica e cattiva, scorretta che turba i benpensanti con sessso e parolacce a caso", come quella disgrazia ignobile cbe è big little lies. No, qui si mostra un aspetto pesantemente negativo di un certo periodo della vita e di una certa società, ma si è partecipi a tutto questo. Risulta credibile.
Durante la visione, a volte, mi incazzavo con Hannah, vedi che si scriverà Anna, ma a me piace mettere h a caso, perché le dicevo: ma è solo una lista! Ne fanno a migliaia e migliaia, non devi lasciarti travolgere da una simile scemenza. Però, poi, la serie mi portava a rifletter su cosa possa essere per una ragazzina quella cosa. Una ragazza forse anche paranoica, debole, incapace di reggere gli urti della vita, ma anche se lo fosse, che dobbiamo fare? Disprezzarla e abbandonarla? No. Dovremmo capirla.
Però noi viviamo con leggerezza, diciamo che il senso di colpa deve essere superato perché dannoso e inutile,  la punizione cosa legata al passato, una cosa barbara, per cui , ma si! Dai, lasciamo che si rovini la vita di una ragazza. Anche stupida ed egoista perché il suicidio è atto stupido ed egoista, dobbiamo gridarlo forre e con convinzione. Lasci persone distrutte dal dolore, dal non aver fatto abbastanza, quando spesso siamo noi incapaci di chiedere aiuto.
Però, Hannah è giovane. Quel gesto era inevitabile, e non è giusto uccider due volte una persona debole, vinta dal dolore di vivere.
Clay ed Hannah sono bellissimi. Così dolci e arrabbiati, ostinati a non voler far parte di quel carrozzone di apparenze, ipocrisie, falsità, conformismo odioso, che è il mondo a volte. Ma anche gli altri personaggi sono scritti benissimo. Justin è vittima del suo ritenere amico un essere abbietto, vittima della famiglia dove non trova un po' di conforto, Alex dei suoi sensi di colpa del voler esser altro, ma non poter star fuori del gruppo e così via tutti gli altri
Sono come eravamo noi a quell'età, no vabbè io ero già troppo pigro per poter meritare robe melodrammatiche,  non è stata un'adolescenza che valga la pena ricordare e trattenere nel cuore, ma nemmeno ricca di grossi traumi. Mediocre e accettiamola cosi, va.
Comunque TREDICI è anche la storia del dolore della famiglia di Hannah, dell'impossibilità delle scuole di esser presenti sempre e tempestivamente per aiutare tutti gli scolari, però è anche la storia della bellissima amicizia tra Clay e Tony, di una rinascita attraverso il dolore , una storia dove le cose devono andar al proprio posto prima o poi.
Una bellissima storia, per una serie tv che ho amato profondamente

ps: reputo, però, la seconda stagione pleonastica. Almeno in teoria.

venerdì 9 giugno 2017

Liebster award

Bello quando un piccolo, megalomane, trasandato, splendente, diario personale di uno spettatore egocentrico e fragile, viene citato o nominato per premi o varie ed eventuali.
Si, perché alla fine che qualcuno premi le cose che scrivi e pensi è sempre una bella e grande soddisfazione.
Gli amici di Cinefatti mi hanno segnalato per questo premio, che mi par di aver già vinto in passato, anche se io vado orgoglioso di quelli vinti col mio blog di cinema serio, competente e che avrebbe meritato vita migliore, parlo di : cinema condiviso.
Oh, vabbè ma l'erba gramigna si sa ha vita più lunga, sicché questo blog  che non segue nessun schema, che se ne frega di tutto e tutti, è ancora qui.
Perchè lo spettatore non sia mai passivo, ma indisciplinato all'ordine di un cinema di massa senza nerbo e cervello, sempre attivo sentimentalmente, pronti a piangere e ridere, a vivere il cinema
Vabbuò, dopo questa autocelebrazione, rispondiamo alle domande dei carissimi amici- e testimoni di nozze- di Cinefatti


1) Cinema, tv o entrambi?
Non ho la tv. Sicché cinema

2) Un film che ami e un film che odi
 My sassy girl quello che amo,  Rambo 2 quello che odio
3) Il tuo Personaggio cinematografico, quello con la maiuscola
Michele Apicella, Bianca/ Don Giulio, la messa è finita
4) Incontri Werner Herzog per strada: cosa fai?
Lo guardo e penso a quanto sia fondamentale per l'arte
5) Una citazione cinematografica a cui sei particolarmente affezionato?
La vera libertà sta nell'essere in due

6) Hai mai girato un film?
No, non rientra nemmeno nei miei sogni. Anche perché così posso scrivere di cinema senza diventare il lavoratore che vive il cinema come lavoro e non come ancòra di salvezza
7) Qual è l’ultimo festival di cinema a cui hai partecipato? Quale quello a cui vorresti partecipare?
Mi piacerebbe partecipare a quello di Venezia, mal che vada pure quello inutile di Roma
8) Sei mai uscito dalla sala prima della fine?
No. 
9) Netflix-dipendenza: da 1 a 10, quanto?
6/7
10) Un film o una serie tv che secondo te tutti dovrebbero vedere.
Film : le onde del destino serie: Lost
11) Il finale migliore secondo te (senza svelarlo, ci basta il titolo).
Quello di Goodbye Lenin. La storia come sarebbe dovuta andare. Però anche quello de Les Miserable <3 strong="">

giovedì 8 giugno 2017

Ritratto di famiglia con tempesta di H. Kore-eda

Io credo siano importanti le variazioni sul tema, piuttosto che l'originalità e l'anti retorica a tutti i costi. Perché se questi ultimi elementi non sai gestirli, vengono fuori cose brutte e insensate. Frutto di un odio verso ciò che è verosimile, reale, condivisibile col resto del mondo.
Mi piacciono tantissimo i film che parlano di gente comune, perché costoro sono tutto, tranne che "comuni". Lo diventano nel cattivo cinema o letteratura, nel pensiero annoiato dei reazionari, o dei borghesi chiusi in mondi fatati e isolati.
C'è più epica nella vita del salumiere sotto casa che in mille impavidi guerrieri e compagnia bella. Non dico che i guerrieri e il fantasy siano cose brutte- brutte, anzi vi sono autori meravigliosi e imperdibili, in quel campo. Io, da spettatore o lettore, preferisco altro: appunto lo ripeto di nuovo la possanza e maraviglia di fronte a vite e storie "ordinarie". ma che di banale o pleonastico, se ben vedete non hanno nulla
Kore-eda è un grande maestro nel mettere in scena codeste storie, bisogna dargli atto. Certo se dal cinema volete il fantastico, gli effetti speciali, eroi e cattivi, spettacolo e intrattenimento, ecco queste opere potrebbero annoiarvi; ma qualora foste intellettualmente normodotati e non bambinoni di quaranta anni, bè  datevi una possibilità: lasciatevi trasportare nella limpida poetica di esistenze "apparentemente lisce", va vi cito pure Ruggeri!

Ci sono molti modi per narrare la stessa storia. Per questo gli oligofrenici che se la sono presa colla sola opera degna di nota di Genovese, si son bloccati a : ma è sempre la stessa menata del gruppo di amici in casa e delle loro beghe. Carissimi, questo è il cinema! In particolare quello di genere, al massimo arriviamo a tre canovacci, poi sta all'abilità dello sceneggiatore e del regista a dargli spessore e importanza.
I film su famiglie che si ritrovano, dopo un lutto o per le vacanze, sono migliaia. Perché tutti abbiamo una famiglia, tutti abbiamo passato momenti orribili e voglia di riappacificare rapporti forse un po' tralasciati, fissi sulla nostra idea di chi sia un genitore, un figlio, si chiama "sindrome di Giovanni Mari", ti porta ad odiare un padre per tutta la vita, ma senza conoscerlo, basandosi su un'idea, un momento negativo. Capita a moltissime persone.
Per cui è normale e giusto che si facciano tanti film su questo tema. Kore- eda è un esperto del settore.
Per cui la differenza cosa la fa? Lo sguardo. Dolan, nel suo ultimo capolavoro, vuol farci notare la fragilità e inconsistenza delle relazioni, di come ognuno sia chiuso in un mondo ostile e a parte, Kore- eda si è laureato all'Università Virzì e Spielberg, lui crede negli esseri umani e nelle loro debolezze. Per questo, anche se non ci sono i finali più ottimisti di codesto mondo, c'è sempre una compassione profonda, una dolcezza soffusa. 
Non manca nemmeno in questa sua ultima pellicola. 
Ryota era una possibile promessa della letteratura, che si è voluto perdere in un mondo marginale basato su gioco d'azzardo, solitudine, un lavoro di investigatore privato non proprio onestissimo. Un uomo placidamente alla deriva. Uno di quelli che conosco bene e in un certo senso sento affine, forse anime troppo pigre per impegnarsi davvero a far qualcosa di buono, o troppo limpide per adattarsi a questo mondo. Non lo so, non importa.
La cosa fondamentale è che lui tenta di essere un buon padre, ama ancora la ex moglie, ma non è in grado di gestir al meglio quella cosa complicata che sono le relazioni umane. Una parola non detta o una di troppo, una confessione o richiesta d'aiuto che ci imbarazza o che avremmo dovuto fare. Così meraviglioso e fragile il mondo umano, come fai a non amarlo?
Così dopo una prima parte di descrizione del lavoro di Ryota, non la migliore, arriva la tempesta, che costringe i personaggi a trovarsi chiusi nell'appartamento della madre dell'ex scrittore. Non succede nulla, eppure succede tutto.
I dialoghi colla madre, col figliolo, con l'ex, sono ricchi di amore e delusione. Le basi della nostra esistenza. Lui vorrebbe essere migliore, ma non può. La differenza fra la retorica americana, la follia da pirla dei life coach e un aderire seriamente alla vita è questa: non tutte le vite brillano e sono destinate a una redenzione, un riscatto, al - mi si perdoni l'orribile termine- successo. La maggior parte vede fallire sogni, desideri, speranze, illusioni, allora cosa ci rende più grandi della vita? Il tentativo
Lo so, non farò mai quello che voglio, ma tento di farlo. E poi vado avanti, farò altro.
Capita a volte che si cresca in contesti dove l'infelicità sia una radice forte, dove ti vengono elencate le difficoltà, mancanze, difetti che hai, come se tu fossi un'anomalia. Così cresci convinto che ogni cosa sia una sconfitta meritata e non fai nulla. 
Invece dovremmo educare i nostri cari(figli fratelli genitori consorti) a tentare sempre di costruire/ricostruire dei rapporti umani solidi. Sono le cose che ci rendono vivi.

Questo avviene tra i personaggi di questo bellissimo film. Nelle loro incomprensioni umanissime, nel dolore e nella voglia di esserci, di parlarsi, di scontrarsi. 
Kore-eda non ci spinge a ritenere Ryota un essere deprecabile, non lo condanna, come non punta il dito contro nessuno dei suoi personaggi. Nemmeno li giustifica. Fa una cosa importante: li comprende, e ce li fa comprendere.
Dopodiché liberissimi di ritenere l'ex scrittore un uomo non apprezzabile, il giudizio è fondamentale di questi tempi così lassisti e normalizzatori a ogni costo. Però, prima, abbiamo avuto la possibilità di incontrare un uomo: disonesto e poco raccomandabile, ma anche pieno di amore per il figliolo e di rimpianto trattenuto per la sua vita.
Di questi tempi, film come questi, sono necessari e fondamentali.