venerdì 30 aprile 2021

IL MULINO DELLE DONNE DI PIETRA di GIORGIO FERRONI.

 Possiamo parlare di una scola italiana per quanto riguarda il genere gotico? Al pari dei film della Hammer e di quelli prodotti da Corman? In fin dei conti da I Vampiri di Freda, che però alla fine risulta poi confinato nel giallo e nel poliziesco, fino al Signor Diavolo di Avati, non c'è forse una tendenza a narrare storie cupe, lugubri, con spesso alla base terribili segreti e letali maledizioni giocando, appunto come fa benissimo Avati, anche su atmosfere provinciali? Forse a noi manca quel tipo di letteratura, di narrazione anche orale, che trova più spazio e sostegno nelle terre fredde e desolate del nord Europa, oppure nel caldo soffocante del sud degli Stati Uniti.  Però, fossero anche opere di mera imitazione,  è indubbio che il cinema italiano ha impreziosito il genere con delle vere e proprie chicce, mi vengono in mente due film di Margheriti: Danza Macabra e I Lunghi Capelli della Morte. Lo stesso Bava ha donato al genere opere splendide durante gli anni sessanta. Tuttavia non mi pare che ci siano degli studi da parte di critici legati al gotico italiano. Può darsi che mi sbagli, così fosse correggetemi pure e suggeritemi un libro che affronti questo particolare genere all'interno dell'horror.


Tra le opere migliori del gotico italiano, c'è sicuramente Il mulino delle donne di pietra. Diretta da un regista che ha attraversato quasi tutti i generi che la nostra industria tra gli anni sessanta e settanta produceva, per cui Peplum,  spaghetti western e horror. Costui ha anche diretto un ottimo horror dalle atmosfere inquietanti La Notte dei Diavoli.  Un film che a mio avviso ogni amante del cinema dell'orrore dovrebbe vedere.

Siamo di fronte a un cinema schiettamente popolare, ma capace anche di raffinatezze, sottigliezze, attenzione alla trama e ai personaggi che sono funzionali al mistero da svelare. Questo tipo di pellicole oggi annoierebbe mortalmente molti dei nuovi spettatori, i quali devono esser sempre catturati e tenuti svegli con una lunga sequela di jump scare a cazzo di cane. Questo tipo di cinema, invece e per fortuna, se la prende con calma. Vuol dar spazio alle relazioni tra personaggi e gettare piccoli indizi su quello che succederà.


 

L'opera è ambientata in terra fiamminga e narra le vicissitudini dello studente Hans Von Amin che si reca nel mulino/abitazione del professor Gregorius Whal, uno scultore che vive con la figlia Elfi. Il giovane è interessato a certi aspetti dell'arte olandese e per questo chiede lumi all'illustre artista e professore. In modo particolare la sua attenzione è catturata dalla esistenza di un enorme carrilon situato nel mulino, ad ogni ora alcune statue con sembianze femminili, che rappresentano donne importanti del passato come Giovanna d'Arco e altre, site su un nastro trasportatore fanno il loro giro, intrattenendo e incuriosendo gli spettatori.  Hans è diviso tra un suo amico e una giovane donna che frequenta nei suoi soggiorni olandesi e l'attrazione per Elfi. I fatti precipitano quando la giovane spira improvvisamente tra le braccia del giovane uomo, da qui comincia un lungo incubo per Hans che lo porterà a scoprire un terrificante segreto di morte e sacrifici.


Il film è il primo horror girato a colori in Italia, stiamo parlando del 1960. Questa scelta, per me, si rivela vincente proprio perché il colore dona calore e inquietudine all'ambiente e alle statue in modo particolare. Si rimane colpiti dalle atmosfere che dietro alla luce, alla pace apparente del paesino, ai volti di gente perbene nasconde un orrore infinito. Un uomo disperato per la malattia della sua adorata figlia che scopre un metodo crudele per poterle dar pezzi di vita, momenti in cui gli è possibile strapparla alla morte e tenerla stretta a sé, per ottenere tutto ciò è necessario dissanguare delle giovani che in seguito verranno pietrificate e poste come attrazioni popolari all'interno del gigantesco carillon. 

 Per far questo va bene anche assoldare un medico radiato dall'ordine, un sordido criminale, che finirà per provare attrazione per la giovane donna. Pagandone il prezzo.

Per cui un'opera che indaga sul lato oscuro, morboso, folle dell'amore. Un amore che non ha più nulla di benevolo, tenero, buono, ma è solo l'incapacità di sapersi staccare da una persona che inesorabilmente stiamo perdendo. A suo modo una riflessione sul lutto, la impossibilità di accettarlo e superarlo, che porta una persona a impazzire totalmente e a trasformarsi in un mostro feroce, spietato,  il tutto inserito in un luogo sospeso tra meraviglia e oppressione, arte e morte. Sopratutto un film che ancora oggi dopo tantissimo tempo rimane affascinante, coinvolgente, e capace di regalare anche qualche reale brivido.  Umanizzando nel finale il cattivo di turno, impossibile non provare pena per la ingiusta sofferenza che su è abbattuta su di lui e la povera figliola. 
Qualora foste interessati è disponibile su Youtube.


mercoledì 28 aprile 2021

MINARI di LEE ISAC CHUNG.

 Il minari è un ortaggio che cresce un po' dappertutto, come le erbacce. In questo modo la nonna del giovane protagonista spiega una verdura coreana, come un tentativo di rammentare al bambino che, seppur nato e cresciuto in occidente e in  America, rimarrà per sempre un coreano. Ed è anche la metafora della resistenza umana, della sua tenacia anche quando le cose vanno male. 

Tuttavia cosa rimane della nazione d'origine, quando vivi da anni in un altro contesto? Una nostalgia di comodo, consolatoria, un prender le distanze da una cultura estranea ma che hai scelto (visto che la Corea rimane come un ombra sottile o un chiacchiericcio di fondo più che una sincera voglia di ritornare o ribadire le tue origini) ma che ti viene in aiuto quando ti accorgi che non sei visto come un cittadino americano dalla popolazione locale, però non puoi nemmeno più dirti coreano. Il cibo, come sempre, è metafora di orgoglio per la terra che ti ha dato i natali, o ai tuoi nonni o genitori, ma anche di una superficiale riscoperta o tentativo di mantener in vita una cosa che hai perduto per strada. Questo è il dramma di qualsiasi immigrante o emigrante.  Scontrarsi col desiderio di ambientarsi totalmente nella nuova patria che abbiamo scelto e la sottile disperazione di non comprenderla del tutto. Voler tornare indietro per sentirsi al sicuro. L'immigrato socialmente "non è". Fa parte di una categoria molto ambigua, difficile, complessa, ci vogliono generazioni prima che si diventi davvero cittadino della seconda patria, mentre la prima rimane uno stereotipo, un piatto da cucinare, un ortaggio.

Pensate un po' come è complicata la vita quando si decide di trasferirsi in America. Non una semplice nazione, non una nuova patria, ma la terra del Sogno Americano, delle libertà e opportunità. Te la vendono bene codesta scemenza e ci caschi sempre. Dai tempi dei tuoi bisnonni, se non prima. Questa idea del sogno pesa sulla vite degli americani come un macigno, figuriamoci su chi si è trasferito per scappare alla miseria e si ritrova povero nella terra dove basta un po' di impegno e i soldi ti cascano addosso. Il risveglio è brusco, violento,  e ti pone una domanda non da poco: " Cosa fare? Mollare tutto oppure ridimensionare le aspettative, non temere il fallimento e perseverare?"
Questo è quello che capita a Jacob, il padre della famiglia Yi, dopo anni a far lavori umili lascia la California per andar a perdersi in un posto abbandonato da dio,(e per questo pregato con forza dai suoi abitanti) nell'Arkansans.  La disillusione ci viene già mostrata nella prima immagine. Monica, la moglie del nostro agricoltore improvvisato, vede la desolazione, il nulla, un posto ostile. E comincia a picconare ogni decisione e idea del consorte.  La situazione si fa talmente pesante che decidono di chiamare dalla Corea del Sud l'adorabile suocera. 

La figura dell'anziana signora porta scompiglio in particolare nella vita del piccolo David. Non solo per una naturale timidezza di fronte a una persona mai vista prima, ma anche perché la donna non si comporta affatto da classica nonna. Non fa i biscotti, non racconta favole, nemmeno aiuta in casa come ci si aspetta da una persona di una certa età.  Il suo carattere anti convenzionale aiuterà il bambino a esser meno timoroso nei confronti della vita.  Però, e per me questo è un merito, non cambia del tutto il quadro generale.
Che rimane una situazione al limite del disastro, perché la volontà e l'impegno, il duro lavoro, non bastano. Ci sono tanti altri fattori che, qualora venissero sottovalutati, potrebbero determinare un successo o un fallimento. 
Io ho trovato interessante e ben fatto il personaggio del padre perché rappresenta un uomo che comprende il disastro, ma non vuole fermarsi, abbandonare, scappare -come invece vuol fare da subito la moglie-  da quel pezzo di terra che gli offre solo fatica e bestemmie.  Non c'è ottusità in costui, ma la tenacia di non farsi sopraffare dalla sconfitta. A volte codesto comportamento scade in scemenza pura, altre volte invece ha del commovente. 
Un destino segnato che attira la simpatia e il sostegno di Paul, un uomo spacciato, escluso, isolato, folle con le sue preghiere ossessive e senza senso, ma che diventa il bastone con cui Jacob può sostenersi. Questa amicizia virile, come spesso succede quando si parla di amicizia tra uomini, vive di non detto, percepito, eppure profondo, radicato, forte.
L'immagine che ci restituisce il film è quella di un'America povera, dimenticata, ma che si alza ogni giorno per cercare di resistere, se non proprio vincere. La narrazione è imposta sull'empatia verso questi personaggi, le loro vite, i loro difetti e pregi. Queste sono le cose che mi son garbate del film: la voglia di rendere protagonista la classe proletaria americana, quelli che sono dalla parte sbagliata del sogno, che siano nati lì o migrati.
Però...
Cosa non funzione nel film? La mancanza di coraggio nel voler dar una sferzata tragica, potente, viscerale, di entrare con pienezza nelle vite dei suoi protagonisti, nel dramma.  Il distacco, trattenersi, va bene, ma ci deve essere allora una regia che sa creare atmosfere rarefatte, impalpabili, soffuse, attraverso una abbacinante costruzione dell'immagine, dell'umano perso e sciolto nella natura, che diventa protagonista distante e inaccessibile, ma presente in qualche modo.  La vita quotidiana è fatta di sofferenze e dolori che rimangono spesso implosi,  ma il cinema ha bisogno del contrario. Proprio gli americani, quando non si fanno prender dalla malattia indie da Sundance, ci hanno regalato opere rurali viscerali e di grande possanza. Perché il contesto è per forza di cose epico e doloroso: l'uomo che sfida il destino e la natura. 
Oppure puoi anche fare un film intimista, minimalista, che narra piccolissime cose, ma a questo punto diventa importante anche distogliere l'attenzione dal problema centrale del film, cioè come evitare il tracollo, e dai più spazio, lo rendi profondo, al rapporto tra la nonna e i nipoti, la nostalgia percepita o reale della patria che si è lasciata alle spalle. Ci sta, può venir fuori un buon lavoro.
Invece l'opera è inerte e incerta, affronta tanti temi, ma non approfondisce nulla.  Rimane un film con immagini anche convenzionali, che ha il pregio di narrare l'america minuscola, piccola, anche evitando certi stereotipi ( i locali non sono razzisti, che semmai subiscono l'astio di Monica che li giudica zotici)  ma non riesce a diventare puro cinema. Cosa che capita spesso in questi anni. Il cinema ridotto a prodotti usa e getta, né belli né brutti, fatti per esser visti, più o meno apprezzati e poi dimenticati.  Non  si vuol toccare nessun nervo scoperto, si vuol evitare la titanica potenza del dolore, ma allo stesso tempo non si è imparato nulla dalla lezione dei film di Capra o Spielberg, per cui non  c'è nemmeno un reale discorso umanista, di amore e speranza.
Tutto un po' sotto tono, didascalico, salvato da alcune intuizioni, tematiche, rappresentazioni, per nulla scontate in un mondo in cui anche i progressisti detestano i zotici e i proletari, ma che non diventa nulla. E una regia abbastanza anonima non aiuta in nessun caso.
Per cui non brutto come è stato descritto da molti, ma nemmeno un'opera per cui spender parole di assoluto entusiasmo.



martedì 6 aprile 2021

The Monster di Bryan Bertino

 Sovente un buon film (o un buon libro) non pongono le loro basi su storie complesse, complicate, ma su semplici idee e uno spazio, un luogo, d'azione ben definito.

In particolare nel cinema assistere a una storia in cui i protagonisti siano bloccati in un determinato luogo, non potendo darsela a gambe, è un buon mezzo per creare tensione. Oltre che risparmiare in location e trasporti, immagino.


The Monster è il quarto film del regista/sceneggiatore/produttore Bryan Bertino. Costui ha esordito con una pellicola molto apprezzata dai fans del genere horror- in particolare del sotto genere home invasion- mi riferisco a The Strangers, a me non è garbato molto a esser sincero, e l'anno scorso ha diretto The Dark and The Wicked, opera molto apprezzata, almeno leggendo le recensioni sui blog di maggior peso per quanto riguarda il cinema horror.

Di nuovo ci troviamo a parlar di famiglie o coppie, di come un avvenimento banale scateni l'orrore e di come, per superarlo, si debba ricorrere al sacrificio e a un battesimo di violenza e sangue.. Questa volta invece di una coppia che si è appena conosciuta, troviamo una madre e una figlia in viaggio verso la casa dell'ex marito.


Kathy e Lizzy sono una madre e una figlia che vivono un rapporto a dir poco conflittuale. Kathy ha problemi di alcol, non ha pazienza con la bambina, si circonda di pessimi uomini,  è un disastro senza gloria. Lizzy, come purtroppo spesso capita nella realtà, sacrifica la sua età, la gioia dell'infanzia, prendendosi cura della madre, vivendo un complicato e malsano rapporto di amore/odio. 

Bertino ci mostra con veloci flashback i loro scontri, la mancanza di comunicazione, i fallimenti. Piccole scene di grande impatto, anche se la regia tende a quel modo di filmare molto indie, distaccato e vabbè, non mi garba. Tuttavia la storia è molto interessante e i personaggi sono scritti davvero molto bene, riuscendo a riempire tutto il film, che di fatto è molto scarno ed essenziale.


Essere scarni ed essenziali non è un difetto. Ricordate le cose funzionano bene quando riesci a spiegarle in una o pochissime frasi. Quello che succede con questo film.

Una madre e una figlia rimangono bloccate in mezzo a una strada abbandonata dal grosso del traffico, in balìa di una mostruosa creatura. Tutto qui.  

Una lunga notte di terrore in cui le due protagoniste passeranno dal terrore per qualcosa che immaginano, alla certezza che quella creatura esista e voglia cibarsi di loro.  L'unità di spazio e tempo è ben tenuta dal regista, certo forse alcuni potranno lamentarsi della lentezza di codesta opera, una critica legittima, ma penso che sia anche parte dell'atmosfera. Ti porta in quella strada, al buio, sotto la pioggia, con il bosco intorno che crea suggestioni, percezioni, terrore, in quanto noi esseri umani senza i vantaggi della civiltà- una strada molto frequentata, la luce elettrica che illumina ogni cosa- ritorniamo ad essere piccini e spaventati di fronte all'ignoto.


I flashback servono per farci empatizzare con Kathy e Lizzy, provar pena per il loro rapporto e il pericolo in  cui si sono cacciate. Sicuramente funziona per molti, ma io- come esattamente per The Strangers- ho un po' faticato a provar qualcosa per loro.  Un mio limite, ne sono certo. Visto che Bertino si impegna a dar sostanza ai personaggi e al loro rapporto. In fin dei conti sono due vittime che si trovano a dover affrontare l'incarnazione di tutto il male, la disperazione, la rabbia, che hanno covato e si sono donate in tutti i loro anni di convivenza infelice.  Per questo il pupazzo che Lizzy si porta a dietro è importante. Simboleggia la sua infanzia, il suo disperato bisogno di esser felice, di esser bambina. In un certo senso lei è un personaggio che mi sento di sostenere, molto meno - ma davvero molto- la madre.

Potremmo leggere la pellicola come una sorta di romanzo di formazione, o come si suol dire "coming of age" in cui una bambina che ha vissuto sempre nel terrore, diventa adulta affrontandolo. Seppur tutto questo avvenga, a mio avviso, un po' forzato e distaccato, senza un senso dell'epica e del coinvolgimento emozionale, scelta coerente all'interno della pellicola.


L'opera funziona molto bene nella parte prettamente horror. Crea una vera tensione, una voglia di scoprire l'esistenza e le fattezze di questa creatura, nella prima parte, per poi metterla in campo e farle fare una buona carneficina. Ho apprezzato molto il fatto che il mostro sia interpretato da un attore che indossa un costume, rende i suoi attacchi, la sua presenza, il suo confronto con le protagoniste, più crudo, duro, violento.  Infine devo davvero far i complimenti alle due attrici Zoe Kazan ed Ellen Ballantine, molto credibili ed affiatate.

The Monster è un buon film di genere horror che ha dalla sua la capacità di creare tensione e due personaggi molto ben scritti. Qualora un certo film dell'orrore con tendenze più indie e d'autore vi dovesse garbare, codesta opera è fatta proprio per voi.

Il Giorno Sbagliato di Derrick Borte

 Keep calm and don't play the clacson. 

Questa potrebbe essere la morale della storia di codesta buonissima pellicola, addirittura salutata come se fosse quasi un capolavoro da molti critici. 

Non lo è e nemmeno aspira ad esserlo. Semmai il film di Borte riempie un vuoto, uno spazio lasciato troppo libero in questi anni, quello di un cinema di genere che si vanta della sua natura violenta, di grana grossa, che non aspira a diventare una testimonianza sociale o altro. Certo, c'è una sorta di messaggio sul fatto che non sai mai chi potresti incontrare per strada,  che le persone danno di matto per delle piccolezze, ma è il pretesto, più che il contesto, per scatenare una caccia sadica e ferocissima contro una povera donna, già abbastanza incasinata di suo.

Per cui non è tanto "Un giorno di ordinaria follia", il metro di paragone, perché in quel bellissimo, straordinario film, il contesto sociale è fondamentale. Lo smarrimento dell'uomo medio schiacciato dal capitalismo, dal mondo economico che spersonalizza è chiara ed esplicita. Douglas reagisce con rabbia e violenza contro una società che prende degli uomini e li costringe ad abbassare la testa, a subire i meccanismi spietati del mercato. Il film mette in scena due uomini segnati e sconfitti, ma è il modo di affrontare questa sconfitta che porterà Duvall a fermare Douglas. Forse potremmo trovare una certa somiglianza in Ipotesi di reato, ma anche in questo caso i personaggi sono simbolo di una diversità di classe, ci sono elementi che ci raccontano il dramma privato del "cattivo".

In questa pellicola vediamo un uomo far fuori la sua famiglia, non sappiamo nulla di lui e le sue azioni future ci daranno ben chiara l'idea che costui sia solo un mostro.

E che mostro!


Il terrificante assassino senza nome interpretato da un meraviglioso, straordinario, Russell Crowe, è molto vicino a Ron Silver di Blue Steel, al Rutger Hauer di The Hitcher, piuttosto che ai personaggi citati nel paragrafo precedente. Il suo personaggio è la quintessenza del male, una macchina-uomo votata a seminar morte e distruzione. Penso che sia di sicuro uno dei "bad guy" migliori da un po' di tempo. Sarebbe bello rivederlo all'opera in un improbabile seguito. O meglio, mi piacerebbe veder questo Crowe in versione Giuseppe Battiston incazzato nero, sfruttato al meglio in altre pellicole. 

Una delle regole fondamentali- almeno per me- quando si vuol fare cinema di genere, di qualsiasi genere, è aver un cattivo che catturi l'attenzione dello spettatore.  Il buono o la protagonista positiva sono la reazione alle malefatte del malvagio di turno. Così funziona una pellicola che vuol intrattenere il suo pubblico.

In questo caso ci riesce benissimo.


Perché un personaggio tanto negativo, trova un giusto avversario nel personaggio della giovane donna che vive una vita incasinata, per colpe sue, un po' superficiale e piena di debolezze. In particolare, per quanto secondario, il rapporto che costei ha con il figliolo o il fratello è ben delineato.  Sembra proprio che sia predestinata a scontrarsi con il ferocissimo killer interpretato da Crowe.

Per cui abbiamo due personaggi ben scritti. Da una parte la quasi totale mancanza di informazioni sul cattivo di turno, lo rendono un personaggio-simbolo del Male. Crea più tensione e spettacolo nella mente dello spettatore, in quanto non distratta dalle motivazioni che spingono l'uomo ad esser così brutale negli omicidi. Dall'altra abbiamo una giovane eroina che rappresenta un certo universo femminile, una certa debolezza e fragilità che unisce parecchie persone in questa società, per cui ti affezioni a lei e alla sua famiglia. Il tutto ben bilanciato, pur all'interno di un film di puro genere e molto muscolare.

Sopratutto la pellicola è da sostenere e apprezzare perché riscopre la fisicità in questo genere di film. In giro ci sono moltissimi horror spesso indipendenti, che perdono tempo a suggerire, lasciar percepire, girare con il freno a mano, come se la pellicola si vergognasse di essere una pellicola dell'orrore e "sai è un film che indaga il dolore di vivere e dobbiamo proiettarla al Sundance, per cui..".  Borte se ne fotte alla grande e picchia duro.  I delitti sono tutti molto violenti, le ossa si rompono, la carne viene maciullata dalla coltellate, gli incidenti sono spettacolari e potenti. Perché è quella la parte che conta davvero. Creare dei piccoli schock visivi, chiaro non stiamo parlando di splatter e gore, ma di sicuro la violenza non è censurata. E a me piacciono assai i film violenti, i film che se ne fregano di trattenersi o far la bella inquadratura pittorica, che almeno si comprenda è un horror però d'autore.

Nulla contro di esso, intendiamoci. Ma non tutti sono degli Eggars e affini, per cui meglio gettarsi anima e corpo a far macello, piuttosto che ammorbare non possedendo lo spirito autoriale.

In questa pellicola non ci si annoia mai. Tutto fila liscio, ci si diverte perché sappiamo che è un film, non fa nulla per nasconderlo. Certo, tanto della sua buona riuscita è dovuta all'interpretazione di Russell Crowe, monumentale e titanico nella sua ferocia, nondimeno anche il resto funziona abbastanza bene.

Forse dovremmo piantarla di spacciarci per grandissimi critici, disillusi, distaccati, persi a cercare il film da stroncare per far polemiche a cazzo di cane, o al contrario il capolavoro assoluto, e goderci la bellezza dei film medi, fatti per intrattenere, tifando per i nostri personaggi preferiti, stupendoci come bimbi per certe scene. Questo è quello che pretende da noi un film come Il Giorno Sbagliato.