La follia delle persone si palesa in modo inequivocabile quando arriva l'estate. Dal 21 giugno comincia la noiosissima e ridicola lamentela di gente infelice contro il caldo, contro il fatto che si suda, fino a darle la colpa di annebbiare la mente delle persone.
Come se in inverno, al freddo, i pirla diventassero tutti premi Nobel. Citando una persona che mia moglie segue su Instagram: "Non funziona così!!!!!".
Certo da ragazzo anche io mi lamentavo per motivi, che rivisti oggi, mi sembrano del tutto sciocchi. Con i miei amici si andava a Riccione. Il nostro obiettivo era fare i telecronisti da spiaggia, commentando in diretta i bagnini assai ridicoli, il genere femminile, e via dicendo. Siamo sempre stati molto comici senza risultare volgari. Erano le persone che controllavamo, ad esserlo.
No, vabbè! Fermi tutti. Queste cose le facevo io, perché mi rompevo i coglioni. La sabbia, il mare, io che non solo non so nuotare, ma ho proprio paura dell'acqua. Sono un uomo di montagna, sia messo agli atti.
Per cui ho rotto le palle anche io, come voi, poi...Miracolo!
2003 Barcellona. La miglior vacanza della mia vita. Posti caldissimi, ma bellissimi. Ho capito che potevo resistere a tutto, anche al caldo e alla spiaggia. Sai quando comprendi che puoi vivere una normale vita da persona decente e che non è scritto da nessuna parta che tu debba fare il bimbominkia ad oltranza? Ecco, successe in quel momento.
Ho incominciato ad amare tantissimo questa stagione con mia moglie. Ogni cambiamento in meglio, ogni scoperta della bellezza che mi appartiene, passa sempre da lei. Ci mancherebbe altro.
Questo per dire che "Odio l'estate" è solo il titolo di una canzone bellissima, ma il film ne celebra la meraviglia e potenza salvifica e rigeneratrice, ultima parentesi di vita e felicità, prima del buio.
Io amo la Toscana. Penso sia una regione meravigliosa sospesa nel tempo, non è frenetica, piegata alla logica del profitto, ha zone ancora incontaminate e il mare qui, lontano da certi luoghi in cui si è una specie di Romagna in miniatura, è stupendo. Selvaggio, libero, non saprei come spiegarlo meglio.
Per cui non mi passa nemmeno per l'anticamera del cervello di tornare a vivere in Brianza. Vivrò e sarò sepolto, tra una quarantina d'anni secondo i miei calcoli, qui a Firenze. O forse a Napoli.
Ci sono molte cose che non mi sono mai garbate nel modo di fare e vivere dei brianzoli, non mi sono mai sentito legato a Monza, e da tempo immaginavo di lasciare la città per andare a stare più a Sud.
Firenze, mi par un buon compromesso. Magari eliminiamo da questa città la sua squallida, ipocrita, idiota borghesia e impediamo ai fiorentini di guidare qualsiasi mezzo a ruote, fatto questo la città sarebbe perfetta.
Il punto della questione è un altro, quanto delle nostre radici ci appartiene anche quando ci sentiamo differenti rispetto alla nostra terra di origine?
Credo che in fondo, nonostante tutto, quando nasci e vivi per tanto tempo in un posto apprendi un modo di approccio alla vita e ai sentimenti, ben difficile da cambiare.
Per cui mi trovo benissimo in Toscana, amo per molti aspetti il Sud Italia, ma rimarrò sempre un lumbard. O meglio, comprendo i loro modi di porsi e fare, l'imbarazzo che ci prende quando dobbiamo esporre i nostri sentimenti profondi, il volersi mantener fuori del tutto da eventuali smancerie o auto celebrazioni ( queste ultime sono ammesse se parli di soldi e lavoro). Quel modo di commuoversi e di commuovere con un certo distacco che nasconde un pozzo di emozioni ribollenti e forti.
Sopratutto quel fare per gli amici con pochi gesti e ancor meno parole.
Cosa volete che vi dica? Mi basta un "taaac" di Pozzetto o un bisticcio di Aldo Giovanni Giacomo e mi sento a casa. Un altro tipo di casa, però ci sto bene.
Anche perché i miei tentativi di passar per fiorentino si mostrano sempre disastrosi ( scusate ma sono normale e la c la pronuncio scusate eh) e mi piace l'iperbole, il paradosso, le esagerazioni verbali, quando siamo arrabbiati o dobbiamo esporre un fatto per noi importante.
Per questo il film di Massimo Venier ed Aldo, Giovanni, Giacomo, non solo mi è piaciuto, ma l'ho proprio amato.
Il film narra la storia di tre famiglie costrette a convivere in una casa presa in affitto per l'estate. Al principio le cose non vanno benissimo, ma la condivisione, la coabitazione creano spazi di confronto e sostegno a vicenda. La sceneggiatura sfrutta molto bene questo elemento e lo mette al servizio dei personaggi e degli attori. Pur essendo una commedia per un pubblico ampio, non ci sono macchiette e semplificazioni imbarazzanti in scena, ma persone comuni, normali.
Aldo è un uomo che ha un'ammirazione sconfinata per Massimo Ranieri, non si sa che mestiere faccia, è allegro, positivo, ha un bellissimo e passionale rapporto con la moglie. Giovanni è preoccupato per il suo negozio aperto dal 1921 e che ora è quasi sempre vuoto, ha una figlia adolescente- che ovviamente si innamorerà del figliolo di Aldo- e una moglie con la quale le cose non vanno benissimo. Va peggio ancora a Giacomo, ma d'altra parte ti sei sposato la commissaria del Bar lume dovevi già sapere dove andavi a parare.
Queste tre famiglie impareranno a conoscersi, stimarsi e a creare un bellissimo rapporto di amicizia.
Fino al finale che non ti aspetti, e che a me ha emozionato e commosso molto. Alla Brianzola, cioè trattenendo le lacrime e la voglia di piangere, per quel bellissimo finale sia in spiaggia, sia in casa di Aldo.
Ecco, questa pellicola mette in scena il meglio della commedia popolare. Schietta, vivace, eppure attenta ai personaggi e non solo ai protagonisti ( bravissime Maria De Biase, Carlotta Natoli e Lucia Mascino ) va pure i ragazzini sono descritti in modo assai reale e non stucchevole. Un inno all'amicizia, alla voglia di vivere e all'importanza di aver qualcuno con cui condividere la vita.
Insomma io questi tre li adoro da una vita. Da quando li vidi in quel programma rivoluzionario, unico e meraviglioso che era " Su la testa". Sanno metter in scena la milanesità schietta, buffa, commossa, come pochissimi altri.
Io credo che di questi tempi un film che sia un inno all'amicizia e ai rapporti profondi, sinceri, sia sempre da supportare, poi se è scritto, interpretato e diretto anche bene, meglio no?
lunedì 17 febbraio 2020
venerdì 14 febbraio 2020
Gli anni più belli di Gabriele Muccino
Noi ci teniamo tanto a dire che viviamo in un mondo migliore rispetto a chi non è occidentale. Un mondo pieno di libertà, benessere, in cui sei perennemente giovane, dove puoi fare tutto quello che vuoi. Un posto in cui sei sempre il cliente che ha ragione. Superiori ai barbari che da fuori tentano di entrare in occidente e metter in pericolo i "sacri valori occidentali", come scrisse una volta uno di Fcebook, e rido ancora oggi per questa meravigliosa battuta.
Eppure io una società che giudica l'amore, la felicità, la bontà, la responsabilità nei confronti dei sentimenti altrui, cose per sciocchi, ipocriti, e invece si vanta delle proprie debolezze e meschinità normalizzandole, giudicandole come unico modo per essere sinceri, mi fa schifo e la detesto. Peggio dei commercianti che monetizzano un giorno dedicato all'amore, come San Valentino.
Il fatto di essere incapaci di amare, di coltivare amicizie serie e di essere fedele alla propria donna, che tanto nessuno può giudicarci e criticarci, mi pare il vero fallimento della mia generazione. Per carità cominciata con alcune scemenze negli anni 70, ma noi ci siamo impegnati davvero a fondo pur di essere liberi da qualsiasi dovere nei confronti di chi diciamo di amare.
Amare è un atto naturale, normale, vitale per ogni essere vivente, ma non è facile. Ci piacerebbe davvero essere quegli amici o compagni su cui puoi contare ed aver la massima fiducia, tuttavia non sempre ci riusciamo. Facciamo male e ne riceviamo.
Alcuni si attaccano a questa verità, una delle tante sul tema dell'amore, per intellettualizzare, fare filosofia spiccia da social, esaltando il fatto che ci bastiamo a noi stessi. In fin dei conti è la via moderna e meno complicata per non sporcarci le mani col probabile dolore per una sconfitta o un tradimento. Siamo dei passatisti D.O.C. sempre a rompere le palle agli altri con le cose che ci sono andate male. Dando la colpa a chiunque tranne che a noi.
L'amore è fatto di vertiginosi alti e paurosi bassi, poi si stabilizza e diventa quella cosa meravigliosa che ci permette di vivere. La nostra vita brilla insieme a quelle degli altri. Che vita sarebbe senza una famiglia, un gruppo di amici, una donna da amare anche( e sopratutto) quando le cose vanno male o diventano riti quotidiani. Ci si fa male, ma è ben poca roba. L'unica resurrezione in cui ho cominciato a credere è proprio quella dei nostri cuori. Ammaccati, ingannati, a volte colpevoli e a volte vittime, ma la voglia di rinascere (pure cervi a primavera) e di riprenderci il nostro posto al caldo sole di una relazione umana profonda e duratura, è la cosa migliore che ci possa capitare.
La cosa che in un certo senso capita ai protagonisti del nuovo film di Muccino.
Io sono un sentimentale. Fossimo in un regime comunista sarei l'agente dell' N.K.V.D. più sdolcinato e romantico della caserma. Per fortuna vostra non siamo in quel regime, ma in uno assolutamente ridicolo, per cui vi tenete il sentimentale. Certo, sono anche un uomo e in particolare ( che non è da poco) un settentrionale. Per cui prima di incontrare mia moglie, raramente dicevo a qualcuno che gli volevo bene, Ero uno di quelli che si imbarazzavano durante le scene romantiche nei film, o che non aveva il coraggio di dire che a volte preferiva ascoltare "Margherita" piuttosto che le canzoni militanti degli anni 70, stonate e con un accordo. Tuttavia grazie al mio SuperIo mi son sempre tenuto sotto controllo. Quello che provavo e mi capitava veniva svuotato di ogni potenza. Non provavo troppo dolore, ma nemmeno troppa gioia.
Muccino se ne frega e mette in scena un grande atto d'amore per l'amicizia, le relazioni di coppia, in un film che non trattiene nulla, non cerca di apparire intellettuale per gli scapoli e zitelle di quasi cinquanta anni, perché non c'è niente di peggio che voler sottomettere alle seghe mentali, la forza e le contraddizioni dolorose dell'amicizia e dell'amore.
Il film narra la storia di tre amici, da quando sono adolescenti agli inizi degli anni 80 fino ai giorni nostri. In sottofondo la storia italiana, ma non è tempo di grandi passioni politiche o lotte rivoluzionarie, per cui i fatti storici rimangono a debita distanza. Toccano i protagonisti, ma non hanno un effetto determinante, a parte il personaggio interpretato benissimo da Favino.
Durante questi anni la loro amicizia conoscerà brusche interruzioni, scontri, saranno travolti dalla morte delle loro madri, matrimoni falliti. Qualcuno si troverà ad abbandonare ideali nobili per vivere una vita di rivalsa economica, nella ricchezza e corruzione. Altri dovranno confrontarsi con lavori mal pagati o quasi inesistenti, o cercare di dar un po' di sé ai propri alunni.
Sono tutti sopravvissuti ( non solo il personaggio interpretato da un magnifico Claudio Santamaria) come lo siamo noi. In fin dei conti avendo deciso di non combattere lotte troppo dure e complicate, ci ritroviamo a esser precari e spaventati nei sentimenti e nella prospettiva del futuro. Mentre le altre generazioni si attaccavano al ricordo della Resistenza o delle lotte del 68, noi abbiamo i cartoni animati, i film della nostra infanzia ( che per alcuni viene uccisa dai cattivoni con i loro remake) e poco altro. Questa generazione, che va dai trenta ai cinquanta, è quella più nuda di tutte.
Fragile, eppure a modo suo imprevedibile.
Tutto questo viene mostrato benissimo nel film di Muccino. Sono tre uomini che nonostante tutto cercano di essere amici, di non perdersi e nel finale, di farsi forza a vicenda.
Prima ho scritto che sono un sentimentale, giusto? Lo ribadisco, lo sottolineo e lo metto agli atti. Perché di codesto film porterò sempre con me il bellissimo personaggio di Paolo ( immenso Kim Rossi Stuart) perché è proprio l'uomo che tento di essere. Uno che ama ed ama per sempre, uno che ha degli ideali magari alla buona e nonostante tutto continua a crederci. La sua storia con Giulia, Micaela Rammazzotti brava come sempre, è tra le più commoventi e toccanti che abbia visto nel cinema italiano negli ultimi anni.
Certo lo schema si rifà ad "C'eravamo tanto amati" il capolavoro di Scola, ma per fortuna non vuol essere un remake. D'altronde quando si parla di cinema corale e generazionale, quella pellicola è l'ispirazione migliore per ogni nuova opera. Scola guardava alla società attraverso tre amici, qui la società conta poco, è un film che parla di sentimenti comuni a tutti noi. La storia piccola di personaggi piccoli che rappresentano le loro vite e basta.
Scola vedeva le ombre del riflusso e quindi il finale amarissimo era la pietra tombale su ogni sogno di cambiamento e rivoluzione. Noi siamo cresciuti apolitici e individualisti. Al massimo ci vanno bene le lotte sui diritti, solo se siamo protagonisti di quelle lotte, ma raramente prendiamo in considerazione i diritti sociali. I personaggi di Scola si confrontavano con il Pci e la sinistra di classe e lotta, noi con le Sardine, per cui è meglio puntare sull'essenza della nostra generazione: la difficoltà ad avere dei rapporti duraturi e profondi.
Lo sguardo di Muccino è pieno di affetto ed empatia per i suoi personaggi. Non nega a loro momenti difficili e tragici, ma non li vuole lasciare morire nel loro vittimismo, o in un cinismo di seconda mano.
In fin dei conti quando hai un amico non puoi dirti davvero sconfitto. Perché c'è sempre una cena in cui ubriacarsi, ridere di tutto e tutti, come facciamo benissimo noi uomini ( d'altra parte quando per secoli lasci la tua vita in guerra, quando hai sulle spalle il peso della famiglia e di mantener il lavoro, capisci bene che la vita va sdrammatizzata e non riempirla di fuffa e inutili pensieri) c'è sempre il momento di riappacificarsi e ricominciare.
Perché una vita senza amici o senza un unico e grande amore, non è nemmeno vita.
Eppure io una società che giudica l'amore, la felicità, la bontà, la responsabilità nei confronti dei sentimenti altrui, cose per sciocchi, ipocriti, e invece si vanta delle proprie debolezze e meschinità normalizzandole, giudicandole come unico modo per essere sinceri, mi fa schifo e la detesto. Peggio dei commercianti che monetizzano un giorno dedicato all'amore, come San Valentino.
Il fatto di essere incapaci di amare, di coltivare amicizie serie e di essere fedele alla propria donna, che tanto nessuno può giudicarci e criticarci, mi pare il vero fallimento della mia generazione. Per carità cominciata con alcune scemenze negli anni 70, ma noi ci siamo impegnati davvero a fondo pur di essere liberi da qualsiasi dovere nei confronti di chi diciamo di amare.
Amare è un atto naturale, normale, vitale per ogni essere vivente, ma non è facile. Ci piacerebbe davvero essere quegli amici o compagni su cui puoi contare ed aver la massima fiducia, tuttavia non sempre ci riusciamo. Facciamo male e ne riceviamo.
Alcuni si attaccano a questa verità, una delle tante sul tema dell'amore, per intellettualizzare, fare filosofia spiccia da social, esaltando il fatto che ci bastiamo a noi stessi. In fin dei conti è la via moderna e meno complicata per non sporcarci le mani col probabile dolore per una sconfitta o un tradimento. Siamo dei passatisti D.O.C. sempre a rompere le palle agli altri con le cose che ci sono andate male. Dando la colpa a chiunque tranne che a noi.
L'amore è fatto di vertiginosi alti e paurosi bassi, poi si stabilizza e diventa quella cosa meravigliosa che ci permette di vivere. La nostra vita brilla insieme a quelle degli altri. Che vita sarebbe senza una famiglia, un gruppo di amici, una donna da amare anche( e sopratutto) quando le cose vanno male o diventano riti quotidiani. Ci si fa male, ma è ben poca roba. L'unica resurrezione in cui ho cominciato a credere è proprio quella dei nostri cuori. Ammaccati, ingannati, a volte colpevoli e a volte vittime, ma la voglia di rinascere (pure cervi a primavera) e di riprenderci il nostro posto al caldo sole di una relazione umana profonda e duratura, è la cosa migliore che ci possa capitare.
La cosa che in un certo senso capita ai protagonisti del nuovo film di Muccino.
Io sono un sentimentale. Fossimo in un regime comunista sarei l'agente dell' N.K.V.D. più sdolcinato e romantico della caserma. Per fortuna vostra non siamo in quel regime, ma in uno assolutamente ridicolo, per cui vi tenete il sentimentale. Certo, sono anche un uomo e in particolare ( che non è da poco) un settentrionale. Per cui prima di incontrare mia moglie, raramente dicevo a qualcuno che gli volevo bene, Ero uno di quelli che si imbarazzavano durante le scene romantiche nei film, o che non aveva il coraggio di dire che a volte preferiva ascoltare "Margherita" piuttosto che le canzoni militanti degli anni 70, stonate e con un accordo. Tuttavia grazie al mio SuperIo mi son sempre tenuto sotto controllo. Quello che provavo e mi capitava veniva svuotato di ogni potenza. Non provavo troppo dolore, ma nemmeno troppa gioia.
Muccino se ne frega e mette in scena un grande atto d'amore per l'amicizia, le relazioni di coppia, in un film che non trattiene nulla, non cerca di apparire intellettuale per gli scapoli e zitelle di quasi cinquanta anni, perché non c'è niente di peggio che voler sottomettere alle seghe mentali, la forza e le contraddizioni dolorose dell'amicizia e dell'amore.
Il film narra la storia di tre amici, da quando sono adolescenti agli inizi degli anni 80 fino ai giorni nostri. In sottofondo la storia italiana, ma non è tempo di grandi passioni politiche o lotte rivoluzionarie, per cui i fatti storici rimangono a debita distanza. Toccano i protagonisti, ma non hanno un effetto determinante, a parte il personaggio interpretato benissimo da Favino.
Durante questi anni la loro amicizia conoscerà brusche interruzioni, scontri, saranno travolti dalla morte delle loro madri, matrimoni falliti. Qualcuno si troverà ad abbandonare ideali nobili per vivere una vita di rivalsa economica, nella ricchezza e corruzione. Altri dovranno confrontarsi con lavori mal pagati o quasi inesistenti, o cercare di dar un po' di sé ai propri alunni.
Sono tutti sopravvissuti ( non solo il personaggio interpretato da un magnifico Claudio Santamaria) come lo siamo noi. In fin dei conti avendo deciso di non combattere lotte troppo dure e complicate, ci ritroviamo a esser precari e spaventati nei sentimenti e nella prospettiva del futuro. Mentre le altre generazioni si attaccavano al ricordo della Resistenza o delle lotte del 68, noi abbiamo i cartoni animati, i film della nostra infanzia ( che per alcuni viene uccisa dai cattivoni con i loro remake) e poco altro. Questa generazione, che va dai trenta ai cinquanta, è quella più nuda di tutte.
Fragile, eppure a modo suo imprevedibile.
Tutto questo viene mostrato benissimo nel film di Muccino. Sono tre uomini che nonostante tutto cercano di essere amici, di non perdersi e nel finale, di farsi forza a vicenda.
Prima ho scritto che sono un sentimentale, giusto? Lo ribadisco, lo sottolineo e lo metto agli atti. Perché di codesto film porterò sempre con me il bellissimo personaggio di Paolo ( immenso Kim Rossi Stuart) perché è proprio l'uomo che tento di essere. Uno che ama ed ama per sempre, uno che ha degli ideali magari alla buona e nonostante tutto continua a crederci. La sua storia con Giulia, Micaela Rammazzotti brava come sempre, è tra le più commoventi e toccanti che abbia visto nel cinema italiano negli ultimi anni.
Certo lo schema si rifà ad "C'eravamo tanto amati" il capolavoro di Scola, ma per fortuna non vuol essere un remake. D'altronde quando si parla di cinema corale e generazionale, quella pellicola è l'ispirazione migliore per ogni nuova opera. Scola guardava alla società attraverso tre amici, qui la società conta poco, è un film che parla di sentimenti comuni a tutti noi. La storia piccola di personaggi piccoli che rappresentano le loro vite e basta.
Scola vedeva le ombre del riflusso e quindi il finale amarissimo era la pietra tombale su ogni sogno di cambiamento e rivoluzione. Noi siamo cresciuti apolitici e individualisti. Al massimo ci vanno bene le lotte sui diritti, solo se siamo protagonisti di quelle lotte, ma raramente prendiamo in considerazione i diritti sociali. I personaggi di Scola si confrontavano con il Pci e la sinistra di classe e lotta, noi con le Sardine, per cui è meglio puntare sull'essenza della nostra generazione: la difficoltà ad avere dei rapporti duraturi e profondi.
Lo sguardo di Muccino è pieno di affetto ed empatia per i suoi personaggi. Non nega a loro momenti difficili e tragici, ma non li vuole lasciare morire nel loro vittimismo, o in un cinismo di seconda mano.
In fin dei conti quando hai un amico non puoi dirti davvero sconfitto. Perché c'è sempre una cena in cui ubriacarsi, ridere di tutto e tutti, come facciamo benissimo noi uomini ( d'altra parte quando per secoli lasci la tua vita in guerra, quando hai sulle spalle il peso della famiglia e di mantener il lavoro, capisci bene che la vita va sdrammatizzata e non riempirla di fuffa e inutili pensieri) c'è sempre il momento di riappacificarsi e ricominciare.
Perché una vita senza amici o senza un unico e grande amore, non è nemmeno vita.
martedì 4 febbraio 2020
1917 di Sam Mendes
Mi piacciono i film di guerra. Un tempo si diceva anche pellicole belliche. Dipende dal grado di cultura del critico o di chi leggeva i settimanali con i programmi televisivi. Noi acquistavamo Telesette, i miei lo fanno tuttora, e Tv Sorrisi Canzoni.
Quando ero ragazzino, fine anni 80, adoravo il Cineracconto, una rubrica fissa su Tv Sorrisi e Canzoni, dove ti scrivevano il film del momento come fosse un racconto. Mettevano il finale come un fascista qualsiasi, a testa in giù, oppure dovevi andare vicino a uno specchio per leggere il finale. Bè, già da allora questa mania ridicola di non voler saper come finisce un film o un libro esisteva e io me ne sbattevo allegramente.
I film di guerra dicevo, prima che mi mettessi a far il nostalgico del Cineracconto, mi sono sempre garbati. Come il western o certi noir/hard boiled/polizieschi, dove tifi in modo anche imbarazzante per l'eroe di turno. Prodotti che ti fan creder in un mondo in cui buoni e cattivi sono ben divisi e a quei nazisti capiterà sicuramente qualcosa di brutto.
Negli anni questo genere, come è successo anche con il western attraverso le pellicole crepuscolari, ha conquistato anche il podio dei massimi riconoscimenti da parte della critica, visto che un buon numero di pellicole sono decisamente dei film d'autore con messaggi pacifisti e di denuncia profondi e indimenticabili.
Tuttavia il genere nasce come propaganda dei vincenti, ed ha come fine ultimo quello dello spettacolo, la guerra al cinema è spesso azione concitata, arditi piani di sabotaggio, un po' di retorica patriottica (che se è americana va benissimo per tutti) e avventura.
Perché per ogni Orizzonte di gloria, c'è un magnifico e bellissimo Dove osano le aquile. C'è La sottile linea rossa e Il ponte sul fiume Kwai, la ferocia anarchica de Non è tempo di eroi, e la propaganda del Giorno più lungo.
Insomma un genere abbastanza complesso da decifrare e capace di offrire diversi prodotti anche agli antipodi uno con l'altro.
A mio avviso 1917 è un perfetto incrocio, una summa di queste due correnti presenti nel genere bellico. Questa sua natura ibrida forse potrebbe anche creare problemi di comprensione, potrebbe portarlo a essere un'opera che non decide mai cosa voglia raccontare. Perché non sufficientemente riflessivo per esser un apologo sulla pace, ma nemmeno troppo slegato dal contesto storico e dalle reali sofferenze dei soldati per esser un war movie classico dove l'azione è la cosa importante.
Per quanto mi riguarda, pur comprendendo questi pericoli, ho trovato invece il suo essere un'opera bellica che ha molto a spartire con film quali I Cannoni di Navarone, in un contesto di realismo totale, la sua carta migliore.
Certo c'è tutta la discussione sul piano sequenze, il falso piano sequenza ecc.. ecc.. Ma mi pare una manovra di marketing per far parlare del film. Non possiamo negare la bellezza assoluta delle immagini e di quanta cura nei minimi particolari vi sia dietro alle riprese. Mendes si conferma un grandissimo regista, chi potrebbe negarlo?
L'aspetto tecnico è quindi importante, ma non è da metter in secondo piano il piacere con cui si segue l'avventura amarissima, dolorosa, straziante che questi due soldati devono affrontare. Due pedine usate per una causa giusta o per un sacrificio da parte dei comandanti? La vita di due persone in missione suicida vale per la salvezza di centinaia di uomini? I due protagonisti non hanno scelte. Dovranno entrare in territorio nemico, attraversare le lande desolate e distrutte di un paese straniero, per portar un messaggio importante, prima che i tedeschi colpiscano duramente le trincee inglesi.
C'è il viaggio, con tutti i rischi da superare, che conferisce un'atmosfera da film avventuroso quasi vecchio stampo. Ma l'ambiente fatto di terreni pieni di cadaveri, armi abbandonate, topi, fango, case vuote, è minaccioso e cupo come l'entità di un film horror. Nella prima parte ho trovato anche questo elemento di terrore "in assenza di" che crea un'atmosfera claustrofobica e di perenne minaccia, senza mostrare nulla, che per qualche minuto ti fa "sentire" il quotidiano terrore che si genera in guerra sopratutto quando non combatti.
L'ambiente in questo film è un protagonista importante.
Mendes gira un film potente e trascinante, dosando bene parti più lente per creare l'attacco e il conflitto contro il nemico. La corsa del soldato fuori dalle trincee per poter consegnare il messaggio al capitano è emozionante ed epico, certo questo giovane che avanza nonostante tutto è irreale, ma è il modo che il cinema ha per ricordare e omaggiare tutti quegli uomini che si sono ritrovati in guerra e hanno fatto di tutto per vivere e compiere il loro dovere.
L'eroe non è un combattente esperto o un bellimbusto da palestra con il mascellone che va sprezzante contro il pericolo, ma un ragazzo comune che accetta di malincuore questa missione e fa di tutto per concluderla nel migliore dei modi, cioè uscirne vivo.
Qualcuno in termini dispregiativi parla di questa opera come di un videogame. Non concordo affatto, o meglio: quando parlate di videogame vi siete accorti dei grandissimi passi in avanti fatti nel settore anche a livello di "trama". Se non ve ne siete accorti fa lo stesso. L'idea del viaggio in cui per ogni tappa devi affrontare un pericolo fa parte delle origini della narrativa popolare e non solo, da lì prende a pieni mani il film.
1917 unisce il rispetto per il genere nella sua forma più popolare con la rappresentazione reale di una zona di guerra, mostra i suoi orrori ma non è un atto politico contro la guerra, celebra l'eroismo ma il suo eroe è un uomo qualunque. In queste contraddizioni sta la sua forza.
Quando ero ragazzino, fine anni 80, adoravo il Cineracconto, una rubrica fissa su Tv Sorrisi e Canzoni, dove ti scrivevano il film del momento come fosse un racconto. Mettevano il finale come un fascista qualsiasi, a testa in giù, oppure dovevi andare vicino a uno specchio per leggere il finale. Bè, già da allora questa mania ridicola di non voler saper come finisce un film o un libro esisteva e io me ne sbattevo allegramente.
I film di guerra dicevo, prima che mi mettessi a far il nostalgico del Cineracconto, mi sono sempre garbati. Come il western o certi noir/hard boiled/polizieschi, dove tifi in modo anche imbarazzante per l'eroe di turno. Prodotti che ti fan creder in un mondo in cui buoni e cattivi sono ben divisi e a quei nazisti capiterà sicuramente qualcosa di brutto.
Negli anni questo genere, come è successo anche con il western attraverso le pellicole crepuscolari, ha conquistato anche il podio dei massimi riconoscimenti da parte della critica, visto che un buon numero di pellicole sono decisamente dei film d'autore con messaggi pacifisti e di denuncia profondi e indimenticabili.
Tuttavia il genere nasce come propaganda dei vincenti, ed ha come fine ultimo quello dello spettacolo, la guerra al cinema è spesso azione concitata, arditi piani di sabotaggio, un po' di retorica patriottica (che se è americana va benissimo per tutti) e avventura.
Perché per ogni Orizzonte di gloria, c'è un magnifico e bellissimo Dove osano le aquile. C'è La sottile linea rossa e Il ponte sul fiume Kwai, la ferocia anarchica de Non è tempo di eroi, e la propaganda del Giorno più lungo.
Insomma un genere abbastanza complesso da decifrare e capace di offrire diversi prodotti anche agli antipodi uno con l'altro.
A mio avviso 1917 è un perfetto incrocio, una summa di queste due correnti presenti nel genere bellico. Questa sua natura ibrida forse potrebbe anche creare problemi di comprensione, potrebbe portarlo a essere un'opera che non decide mai cosa voglia raccontare. Perché non sufficientemente riflessivo per esser un apologo sulla pace, ma nemmeno troppo slegato dal contesto storico e dalle reali sofferenze dei soldati per esser un war movie classico dove l'azione è la cosa importante.
Per quanto mi riguarda, pur comprendendo questi pericoli, ho trovato invece il suo essere un'opera bellica che ha molto a spartire con film quali I Cannoni di Navarone, in un contesto di realismo totale, la sua carta migliore.
Certo c'è tutta la discussione sul piano sequenze, il falso piano sequenza ecc.. ecc.. Ma mi pare una manovra di marketing per far parlare del film. Non possiamo negare la bellezza assoluta delle immagini e di quanta cura nei minimi particolari vi sia dietro alle riprese. Mendes si conferma un grandissimo regista, chi potrebbe negarlo?
L'aspetto tecnico è quindi importante, ma non è da metter in secondo piano il piacere con cui si segue l'avventura amarissima, dolorosa, straziante che questi due soldati devono affrontare. Due pedine usate per una causa giusta o per un sacrificio da parte dei comandanti? La vita di due persone in missione suicida vale per la salvezza di centinaia di uomini? I due protagonisti non hanno scelte. Dovranno entrare in territorio nemico, attraversare le lande desolate e distrutte di un paese straniero, per portar un messaggio importante, prima che i tedeschi colpiscano duramente le trincee inglesi.
C'è il viaggio, con tutti i rischi da superare, che conferisce un'atmosfera da film avventuroso quasi vecchio stampo. Ma l'ambiente fatto di terreni pieni di cadaveri, armi abbandonate, topi, fango, case vuote, è minaccioso e cupo come l'entità di un film horror. Nella prima parte ho trovato anche questo elemento di terrore "in assenza di" che crea un'atmosfera claustrofobica e di perenne minaccia, senza mostrare nulla, che per qualche minuto ti fa "sentire" il quotidiano terrore che si genera in guerra sopratutto quando non combatti.
L'ambiente in questo film è un protagonista importante.
Mendes gira un film potente e trascinante, dosando bene parti più lente per creare l'attacco e il conflitto contro il nemico. La corsa del soldato fuori dalle trincee per poter consegnare il messaggio al capitano è emozionante ed epico, certo questo giovane che avanza nonostante tutto è irreale, ma è il modo che il cinema ha per ricordare e omaggiare tutti quegli uomini che si sono ritrovati in guerra e hanno fatto di tutto per vivere e compiere il loro dovere.
L'eroe non è un combattente esperto o un bellimbusto da palestra con il mascellone che va sprezzante contro il pericolo, ma un ragazzo comune che accetta di malincuore questa missione e fa di tutto per concluderla nel migliore dei modi, cioè uscirne vivo.
Qualcuno in termini dispregiativi parla di questa opera come di un videogame. Non concordo affatto, o meglio: quando parlate di videogame vi siete accorti dei grandissimi passi in avanti fatti nel settore anche a livello di "trama". Se non ve ne siete accorti fa lo stesso. L'idea del viaggio in cui per ogni tappa devi affrontare un pericolo fa parte delle origini della narrativa popolare e non solo, da lì prende a pieni mani il film.
1917 unisce il rispetto per il genere nella sua forma più popolare con la rappresentazione reale di una zona di guerra, mostra i suoi orrori ma non è un atto politico contro la guerra, celebra l'eroismo ma il suo eroe è un uomo qualunque. In queste contraddizioni sta la sua forza.
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lunedì 3 febbraio 2020
iI Due Papi di Fernando Meirelles
Qualche tempo fa avevo preso la decisione di scrivere post su film visti in sala. Tralasciando le opere guardate sul nostro telo in salotto, legate a Netflix e Amazon Prime. Pigro come sono ho scritto meno della metà su tutte i film visti al cinema. La pigrizia è uno dei miei peggiori difetti, sicuramente il più duro da gestire.
Anche questo anno ho ripreso fiducioso lo stesso schema: scrivere di tutti i film visti in sala. Più o meno i risultati sono gli stessi.
Tuttavia farò uno strappo a questa regola perché il film di cui vi parlerà è tra i miei preferiti della scorsa stagione ed è quello per cui tifo nella competizione per gli Oscar. Perché far un film sul Vaticano, il Papa, senza scadere in papismo estremo o (peggio ancora) in critiche tanto cattive quanto scialbe ed idiote, non è operazione facile. Questo ottimo film riesce a trovare un giusto equilibrio tra finzione e attinenza a una certa realtà che non santifica nessuno.
L'opera è tratta da una pièce teatrale The Pope, del 2017, sceneggiata dallo stesso autore Anthony McCarten, ed è una riflessione molto acuta sulle divisioni della e nella chiesa. Non vista come un corpo unico sotto un pensiero dominante, ma come tutti i posti in cui viene gestito un potere, piena di correnti e opinioni distanti.
Il che non vuol dire che siano tutti degli atei mascherati ossessionati dalla gloria e dalla potenza che il ruolo e il suo prestigio donano a chi è Papa, neppure martiri della fede con l'espressione assente per via di visioni e lunghe notti in chat con Dio.
La fede è una cosa seria e complessa purtroppo spesso infangata da rancorosi buoni a nulla, che col pretesto del Vangelo ( senza conoscerlo) si lanciano in linciaggi morali di rara idiozia. Non sono frasi imparate a memoria e scollegate dal loro contesto, non sono visioni e ambizioni terrene nascoste sotto le vesti pregiate e i gioielli, tutto questo è il mercato della fede, Sono come quei venditori al tempio scacciati in malo modo da Gesù.
Per colpa loro, del loro bigottismo squallido molti si sono allontanati dalla chiesa o come me non avvicinati.
Per cui se per caso voleste veder un film che attacca duramente il Vaticano, irriverente, scandaloso e provocatorio, non è questa l'opera giusta.
Non è nemmeno un'agiografia pomposa e triste, di quelle in cui i protagonisti dicono solo cose belle con in sottofondo un John Williams dei poveri che ci dà dentro con musiche zuccherose e spacca timpani. Non si vuol parlare di due santi, sopratutto su Papa Francesco, non si fanno sconti.
L'opera mischia abilmente realtà e finzione senza che questi elementi pregiudichino il valore del film, non è un documentario storico ma nemmeno l'opera di fantasia in cui si inventa di sana pianta un fatto piuttosto che un evento. I ricordi argentini di Papa Francesco, compreso anche il suo ruolo durante la dittatura e di come il suo tentativo di voler dialogare con alcuni membri della giunta militare abbiano portato solo danni ai suoi colleghi ed amici, tanto che qualcuno non l'ha mai perdonato. Il film mostra e lascia spazio al nostro intervento su questi fatti, ti offre l'occasione di una riflessione partendo da un'accusa oppure (dipende da come la vedete voi) un tentativo di analisi su come sia difficile far le scelte giuste sotto dittatura. Non tutti siamo eroi, in particolare quelli che diranno subito: " ah, ma che codardo il Papa." Vorrei davvero vedervi in caserma sotto tortura o in una situazione in cui potreste far una brutta fine, andar a rompere le palle a un pezzo grosso della giunta non è cosa da poco. Certo, i suoi colleghi hanno avuto più coraggio a far certe scelte, infatti l'opera non dà medaglie al valore, mostra la crisi, gli errori fatti anche in buona fede.
Potremmo allora dire che sullo schermo vediamo i due uomini dietro al loro esser Papi? In parte. Bergoglio e Ratzinger sono persone agli opposti su tutto e per tutto. Tanto Papa Francesco è umanissimo, ancorato nel mondo reale e con passioni terrene molto da uomo comune, quanto Papa Benedetto XVI è uomo di rigore, regole, teoria, gusti classici, poco propenso alla battuta, serio, forse un po' rigido.
Il film ci mostra un grande studioso che aveva anche colto il problema dei nostri tempi, il relativismo. Tanti sono convinti che si tratti di progresso e invece è solo la debolezza di non accettare responsabilità, di non aver coraggio di scelte definitive. Questo argomento sarebbe assai interessante anche per noi agnostici e i laici. L'idea che non esista bene o male, nero e bianco ma che sia tutto basato sul grigio, su un individualismo massificato che giustifica a prescindere i capricci di un momento, non sono certo segnali di progresso. Il progresso che invece io trovo nel diritto delle donne a non dover aver stipendi minori rispetto agli uomini e di vivere come persone pari al resto del mondo, o nelle leggi sui matrimoni per i gay e anche le adozioni, questi sono esempi di progresso laico in una società giusta.
No, vabbè per me il massimo del progresso sarebbe la dittatura del proletariato e il ritorno del socialismo reale, ma credo che sia decisivo per tutti ( liberali e comunisti laici e credenti) sconfiggere e superare il relativismo e le sue storture.
Tutto questo discorso per dire che se anche non ho mai amato più di tanto la figura di Papa Benedetto XVI perché in un certo senso forse un po' troppo teorico, distante, slegato dal contesto e conservatore, credo sia una mente brillante e un acuto osservatore. Dovrò leggere qualche suo libro.
In poche parole questo film riesce a parlare di fatti importanti e poco allegri per il vaticano e il papato, senza mancar di rispetto a nessuno. Ma non nel modo ipocrita e borghese del cercar di proteggere la facciata delle istituzioni e dei suoi uomini, ripeto non si negano le responsabilità che hanno avuto nel loro passato o sotto il loro papato, ma il tutto è fatto con rigore, forza, capacità di conquistare il pubblico con momenti leggeri e altri più sferzanti, e anche alti, nel senso che non ci viene presentata una fede precotta e facile da digerire, ma una sagace e arguta riflessione su di essa.
Oltre a un'ottima regia e una solida ed efficace sceneggiatura, il film si tiene in piedi anche grazie alla bravura straordinaria dei suoi magnifici e memorabili interpreti.
Anthony Hopkins fa di Benedetto XVI un uomo certo severo e vissuto sempre dentro alla teoria, allo studio, lontano dalle masse, ma non troppo chiuso mentalmente, anzi grazie alla sua cultura riesce ad imbastire discorsi complicati e complessi, mentre Jonathan Pryce ci offre una splendida interpretazione di Papa Francesco. Tormentato da certi rimpianti, uomo che ama la vita, e ha una visione della chiesa non chiusa nelle regole dei libri sacri, ma ancorata nella realtà.
Questo è il film per cui faccio il tifo per gli Oscar. Per il resto non li seguo da tempo, mi limito a leggere i vincitori il giorno dopo. Anzi no, leggo quelli che devono subir lo smacco della vittoria di un film che non hanno amato.
Matte risate, ve lo assicuro <3 nbsp="" p="">3>
Anche questo anno ho ripreso fiducioso lo stesso schema: scrivere di tutti i film visti in sala. Più o meno i risultati sono gli stessi.
Tuttavia farò uno strappo a questa regola perché il film di cui vi parlerà è tra i miei preferiti della scorsa stagione ed è quello per cui tifo nella competizione per gli Oscar. Perché far un film sul Vaticano, il Papa, senza scadere in papismo estremo o (peggio ancora) in critiche tanto cattive quanto scialbe ed idiote, non è operazione facile. Questo ottimo film riesce a trovare un giusto equilibrio tra finzione e attinenza a una certa realtà che non santifica nessuno.
L'opera è tratta da una pièce teatrale The Pope, del 2017, sceneggiata dallo stesso autore Anthony McCarten, ed è una riflessione molto acuta sulle divisioni della e nella chiesa. Non vista come un corpo unico sotto un pensiero dominante, ma come tutti i posti in cui viene gestito un potere, piena di correnti e opinioni distanti.
Il che non vuol dire che siano tutti degli atei mascherati ossessionati dalla gloria e dalla potenza che il ruolo e il suo prestigio donano a chi è Papa, neppure martiri della fede con l'espressione assente per via di visioni e lunghe notti in chat con Dio.
La fede è una cosa seria e complessa purtroppo spesso infangata da rancorosi buoni a nulla, che col pretesto del Vangelo ( senza conoscerlo) si lanciano in linciaggi morali di rara idiozia. Non sono frasi imparate a memoria e scollegate dal loro contesto, non sono visioni e ambizioni terrene nascoste sotto le vesti pregiate e i gioielli, tutto questo è il mercato della fede, Sono come quei venditori al tempio scacciati in malo modo da Gesù.
Per colpa loro, del loro bigottismo squallido molti si sono allontanati dalla chiesa o come me non avvicinati.
Per cui se per caso voleste veder un film che attacca duramente il Vaticano, irriverente, scandaloso e provocatorio, non è questa l'opera giusta.
Non è nemmeno un'agiografia pomposa e triste, di quelle in cui i protagonisti dicono solo cose belle con in sottofondo un John Williams dei poveri che ci dà dentro con musiche zuccherose e spacca timpani. Non si vuol parlare di due santi, sopratutto su Papa Francesco, non si fanno sconti.
L'opera mischia abilmente realtà e finzione senza che questi elementi pregiudichino il valore del film, non è un documentario storico ma nemmeno l'opera di fantasia in cui si inventa di sana pianta un fatto piuttosto che un evento. I ricordi argentini di Papa Francesco, compreso anche il suo ruolo durante la dittatura e di come il suo tentativo di voler dialogare con alcuni membri della giunta militare abbiano portato solo danni ai suoi colleghi ed amici, tanto che qualcuno non l'ha mai perdonato. Il film mostra e lascia spazio al nostro intervento su questi fatti, ti offre l'occasione di una riflessione partendo da un'accusa oppure (dipende da come la vedete voi) un tentativo di analisi su come sia difficile far le scelte giuste sotto dittatura. Non tutti siamo eroi, in particolare quelli che diranno subito: " ah, ma che codardo il Papa." Vorrei davvero vedervi in caserma sotto tortura o in una situazione in cui potreste far una brutta fine, andar a rompere le palle a un pezzo grosso della giunta non è cosa da poco. Certo, i suoi colleghi hanno avuto più coraggio a far certe scelte, infatti l'opera non dà medaglie al valore, mostra la crisi, gli errori fatti anche in buona fede.
Potremmo allora dire che sullo schermo vediamo i due uomini dietro al loro esser Papi? In parte. Bergoglio e Ratzinger sono persone agli opposti su tutto e per tutto. Tanto Papa Francesco è umanissimo, ancorato nel mondo reale e con passioni terrene molto da uomo comune, quanto Papa Benedetto XVI è uomo di rigore, regole, teoria, gusti classici, poco propenso alla battuta, serio, forse un po' rigido.
Il film ci mostra un grande studioso che aveva anche colto il problema dei nostri tempi, il relativismo. Tanti sono convinti che si tratti di progresso e invece è solo la debolezza di non accettare responsabilità, di non aver coraggio di scelte definitive. Questo argomento sarebbe assai interessante anche per noi agnostici e i laici. L'idea che non esista bene o male, nero e bianco ma che sia tutto basato sul grigio, su un individualismo massificato che giustifica a prescindere i capricci di un momento, non sono certo segnali di progresso. Il progresso che invece io trovo nel diritto delle donne a non dover aver stipendi minori rispetto agli uomini e di vivere come persone pari al resto del mondo, o nelle leggi sui matrimoni per i gay e anche le adozioni, questi sono esempi di progresso laico in una società giusta.
No, vabbè per me il massimo del progresso sarebbe la dittatura del proletariato e il ritorno del socialismo reale, ma credo che sia decisivo per tutti ( liberali e comunisti laici e credenti) sconfiggere e superare il relativismo e le sue storture.
Tutto questo discorso per dire che se anche non ho mai amato più di tanto la figura di Papa Benedetto XVI perché in un certo senso forse un po' troppo teorico, distante, slegato dal contesto e conservatore, credo sia una mente brillante e un acuto osservatore. Dovrò leggere qualche suo libro.
In poche parole questo film riesce a parlare di fatti importanti e poco allegri per il vaticano e il papato, senza mancar di rispetto a nessuno. Ma non nel modo ipocrita e borghese del cercar di proteggere la facciata delle istituzioni e dei suoi uomini, ripeto non si negano le responsabilità che hanno avuto nel loro passato o sotto il loro papato, ma il tutto è fatto con rigore, forza, capacità di conquistare il pubblico con momenti leggeri e altri più sferzanti, e anche alti, nel senso che non ci viene presentata una fede precotta e facile da digerire, ma una sagace e arguta riflessione su di essa.
Oltre a un'ottima regia e una solida ed efficace sceneggiatura, il film si tiene in piedi anche grazie alla bravura straordinaria dei suoi magnifici e memorabili interpreti.
Anthony Hopkins fa di Benedetto XVI un uomo certo severo e vissuto sempre dentro alla teoria, allo studio, lontano dalle masse, ma non troppo chiuso mentalmente, anzi grazie alla sua cultura riesce ad imbastire discorsi complicati e complessi, mentre Jonathan Pryce ci offre una splendida interpretazione di Papa Francesco. Tormentato da certi rimpianti, uomo che ama la vita, e ha una visione della chiesa non chiusa nelle regole dei libri sacri, ma ancorata nella realtà.
Questo è il film per cui faccio il tifo per gli Oscar. Per il resto non li seguo da tempo, mi limito a leggere i vincitori il giorno dopo. Anzi no, leggo quelli che devono subir lo smacco della vittoria di un film che non hanno amato.
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