mercoledì 20 maggio 2020

DEREK di Ricky Gervais

"Io mi devo difendere."
Questa frase detta dal personaggio di Michele Apicella in  Bianca, descrive molto bene la maggioranza di uomini e donne che hanno deciso di vivere nell'insofferenza, diffidenza, in una solitudine tanto esibita, quanto nel profondo subita. Perché, non dimentichiamolo "la vera libertà è stare in due" Questa volta a parlare è Don Giulio. Il film quel capolavoro che è La messa è finita.
Ci sono tanti discorsi che pretendono la nobiltà della filosofia o del grande pensiero intellettuale, votate a dar credito a tutto ciò che è pessimista, rancoroso, debole, egoistico, con la scusa che la vita è dura, il mondo fa schifo,  l'amore è una sciocca illusione. Uomini e donne fieri di non essere consolatori, come se consolare fosse una cosa ignobile e meschina,  ma che nella verità si nascondono, fuggono, dietro alibi, giustificazioni, due soldi di cultura buttati via.  Non credete a chi vi dice che siamo soli, che gli altri sono un ostacolo alla nostra felicità.  Sono parole per salvarsi da un dolore che non sappiamo gestire, per cui comprensibile, ma non sono vere. Col tempo quasi tutti ce ne accorgiamo.
Perché ha ragione Derek, la gentilezza è fondamentale e importante, e a parte certi irrecuperabili - per cui attuiamo con gentilezza la giustizia proletaria- la maggior parte delle persone se trattate con rispetto, attenzione, affetto, si dimostrano meglio di quello che sono.
Il giorno della nostra morte arriverà implacabile. Una seccatura, come quando sei costretto, da piccolo, ad andar a pranzo dai parenti.  A noi piacerebbe un finale in grande stile, perché in fin dei conti la vita è una meravigliosa recita ed è venuto il momento di salutare il pubblico. Purtroppo non per tutti è possibile andarsene con stile, dicendo le ultime famose parole. Si boccheggia, nella semi incoscienza, in un letto che non è il vostro, un anonimo giorno di pioggia feriale. La gente lavora, si perde in mille scemenze, ha paura di tutto, non si fida di nessuno. E voi morite.
Per cui potreste dirmi: vedi che muori solo? Lo diciamo perché diamo per scontato le cattiverie ed assenze altrui. Dando poco peso a tutto il bene, le attenzioni, la mano che ci sfiora prima di morire, donata a noi dagli altri.
Ci siamo abituati che esser sinceri significa essere teste di cazzo. Ci siamo abituati ad ascoltare per far polemiche sterili, che dobbiamo blasterare, mi raccomando!  Negli altri vediamo il nemico, colui che ci impedisce di essere felici. E allora ditemi, quale felicità vi ruba una persona che si mostra gentile con voi? Le piccole esigenze personali, la vigliacca fuga da una analisi lucida e spietata dei nostri problemi, tutte cose che ci servono per resistere ai duri colpi della vita.
Ci vuole troppa disciplina, fermezza, decisione, organizzazione per essere teneri, affettuosi e gentili con noi stessi e gli altri.  Troppa. Meglio consolarci con i nostri disastri, le mancanze, le ossessioni, che pretendiamo di normalizzare.
Lo so, perché lo faccio anche io.  Mi sento inadeguato, stanco, sono convinto di essere sempre  e comunque un peso, il peggiore dei peggiori, e allora mi lascio andare. Mi scorre addosso la vita, la gioia, il dolore, tutto.  Lontano dal mondo, da ogni essere vivente. Perché? Anche io devo difendermi. Da chi? Da me, dai miei disastri, dal coro greco di persone che nella mia testa me ne dice di tutti i colori. Mi limito a osservare il disastro che sono, che è il mondo in cui vivo. Detto questo, ho anche cominciato un lungo percorso di miglioramento personale, vado in terapia, faccio piccoli e significativi passi in avanti, che poi nego a me stesso quando "sto male", ma li faccio per quanto trascurabili agli occhi degli altri. Li faccio perché ho capito che intorno a me ci sono molte persone che mi vogliono bene e che ognuna di loro con gesti piccoli o grandi mi rende la vita migliore, degna di essere vissuta.
Che nessuno uomo è un'isola. Certo, ho dovuto incontrare mia moglie, il faro illuminante della mia vita. La persona che ha dato inizio alla mia rinascita.
Perché esistono persone stupende come Derek che non ha alibi, giustificazioni, non campa di masturbazioni mentali. Riconoscono il dolore, la sofferenza, ma cercano di accompagnarci nella nostra vita piena di tribolazioni con la loro gentilezza, generosità, amore.  Lo fanno perché sanno che ognuno di noi merita di uscire dalla scena con qualcuno che applaudi alla sua vita, a quello che ha sognato, desiderato, perduto.
Dietro alle risate ( e in questa serie si ride tantissimo) c'è la malattia, la morte, le vite colpite e spezzate dei perdenti. Uomini sconfitti e non come succede nei film americani, cioè rielaborati affinché il pubblico benestante possa rendersi conto che esistano gli altri, ma che costoro sono solo un po' particolari e fondamentalmente comici.  Qui ridiamo delle battute e per le situazioni, ma i personaggi sono tutti tragici. Sopratutto non addomesticati, ripuliti. Sono squallidi, ripugnanti, osceni, volgarissimi e odiosi. Eppure sono proprio loro che meritano la carezza, l'abbraccio, il sostegno totale e assoluto casino dopo casino.
Tutto questo lo noti nel bellissimo, meraviglioso, straordinario personaggio di Kevin - interpretato benissimo da David Earl-  un alcolizzato senza gloria, un viscido e squallido maniaco sessuale, un uomo volgarissimo. Uno che non fa nulla, beve e dice cose sessualmente imbarazzanti . Eppure in tutto questo orrore di uomo c'è una cosa che io ho colto al volo, ma l'avranno colta tutti quelli che pensano di non meritare nessun tipo di amore, cioè un fortissimo desiderio d'amore, la voglia di esporla alla luce del sole tutto l'affetto, la dolcezza di cui è capace. Per questo il rapporto con Derek è fondamentale, lo aiuta a non sprofondare di più. In una serie in cui, come pubblico, siamo portati a piangere moltissimo, il personaggio di Kevin è quello che mi ha commosso di più in assoluto. Mi ha ricordato quel passo delVangelo, forse di Luca, in cui parlando delle opere di bene, del far del bene per gli altri, ci esorta a farlo per chi odiamo, i nostri nemici. Perché quello è il gesto che dona davvero importanza a far il bene: essere disinteressati e muoversi solo per evitare che gli altri stiano rinchiusi nel loro dolore.
Kevin è il personaggio verso cui il bene che fa Derek diventa azione quasi mistica, quasi divina.
C'è anche un bellissimo discorso sulla vecchiaia e gli anziani. Proprio ora che sono tra i più colpiti dal Covid-19, in un momento in cui nazioni che di solito stanno al primo posto tra gli esterofili di sta cippa, in cui ritenendo che la vita non sia sacra- che enorme cazzata- si reputa che la perdita di persone che comunque hanno già vissuto la loro vita, sia una perdita accettabilissima.
Derek va controcorrente. Ci rammenta che c'è vita fino all'ultimo, che gli anziani hanno il diritto e il dovere di vivere serenamente i loro ultimi anni su questo pianeta, di ridere e scherzare, forse anche innamorarsi,  aver qualcuno che li ascolti e li accolga con trasporto e una esibizione cristallina delle emozioni.
La casa di riposo gestita benissimo da Hanna, bravissima Kerry Godlman,  è la rappresentazione dell'ostinazione, l'amore per la sua professione, della donna e dell'amore purissimo che Derek riesce a dar a ogni ospite, collega, persona ed essere vivente che incontra nella sua via.
Quando riesci a far ridere, piangere, rendere i personaggi non degli stereotipi senza vita, ma persone a cui ti affezioni, vuol dire che stai facendo davvero un ottimo lavoro.
Gervais si conferma, dopo After Life e un buon numero di film riusciti, come uno tra i migliori autori di commedie venate di dramma, attualmente operativi.
Consiglio questa serie tv che non teme di essere sentimentale.
Opera  melodrammatica, volgare e comica, mantiene  sempre un livello alto; la consiglio perché sarebbe un grosso errore perderla. Derek non ha paragoni di sorta, è altro e oltre.
Vita rappresentata con dolore, partecipazione, umanità.
Penso che tutti abbiamo bisogno di queste cose. Di toglierci il peso della sofferenza fine a sé stessa e puntare a una sana  e reale redenzione.

mercoledì 13 maggio 2020

Aftermath di Elliot Lester

In questi mesi di pandemia ho avuto la conferma di vivere in una società di persone che non hanno senso del bene comune, persone che badano alla soddisfazione delle loro esigenze. In realtà non credo nemmeno che siano tantissimi, tuttavia sono rumorosi  e fastidiosi. Per costoro la vita non è una lunga serie di conseguenze che dobbiamo gestire o pagare per le nostre scelte e responsabilità, è solo una questione di libertà personale.
Tuttavia le cose non stanno così.  E il conto da pagare c'è sempre.
Cosa rende davvero piena la vita di un uomo? Quali sono quelle cose per cui vale la pena vivere? Cosa succederebbe se un giorno dovessimo perderle, all'improvviso, per colpa di qualcuno che non conosciamo, ma che un po' alla volta diventa il responsabile della nostra fine? Queste sono alcune domande che mi sono posto guardando questo notevole film che ci dona un Arnold Schwarzenegger davvero straordinario in un ruolo decisamente drammatico.
Il popolare eroe di tantissimi film di successo degli anni 80, in questa pellicola interpreta un capo cantiere edile, di origine ucraine, che vive per la famiglia e il lavoro. Un uomo semplice, gentile, una persona normale, come moltissimi di noi,  Uno destinato alla vita del lavoratore, del padre di famiglia, un tizio senza grilli per la testa.
La sua vita crolla quando moglie e figlia muoiono in un incidente aereo.  Colpa di un addetto alla torre di controllo.
 Improvvisamente Roman perde tutto, si trincera dietro al silenzio e al dolore, ha solo uno scopo: che qualcuno si scusi con lui. Invece il linguaggio dei responsabili è burocratico, basato su un assistenzialismo del tutto ipocrita, in cui il suo dolore ( e quello delle altre vittime) è solo questione di evitare un processo e di pagare pochi spicci per una cosa che non ha valore: la vita umana,
Tuttavia non è solo Roman a soffrire, a sentirsi perduto e senza una vita. Le stesse sensazioni le vive sulla sua pelle il responsabile del disastro aereo, un uomo come tanti anche lui di nome Jack. Costui è un uomo felicemente sposato con una donna che ama ed insieme hanno un figlio.  Anche Jack vive per la famiglia e il lavoro, solo che durante un turno notturno di lavoro, per colpa di tante piccoli problemi e disattenzioni, non nota che due aereoplani sono in rotta di collisione. Quel suo errore costa la via ad oltre duecento persone.  Da quel momento è il nemico pubblico numero uno. La gente gli imbratta la facciata della sua casa con scritte cariche di odio, la tv lo bracca e lui passa le giornate a letto. Perdendo lavoro, famiglia,tutto.
Fino a quando riesce con molta fatica a ricostruirsi una vita. Ma le conseguenze del male che facciamo, anche senza premeditazione o desiderio di farlo, non si cancellano da sole.  Non c'è salvezza e redenzione per il dolore e la sofferenza che provochiamo. 
La conseguenza che è la rabbia e l'odio sfociano in violenza. La quale non può che portare altro rancore e bisogno di vendicarsi. 
Sì, perché se vi aspettate un film ridondante, strumentale,  morboso, sul senso e il bisogno di vendetta, avete sbagliato opera. 
Aftermath è un film disperato, cupo, in cui il dolore è diffuso in ogni sequenza, dialogo, non ci sono personaggi del tutto buoni o cattivi. Sono uomini travolti dalla tragedia che hanno causato o subito.  Sono persone condannate alla solitudine, al pensare e rivivere la perdita dei propri cari e la certezza di esser un uomo bravo e innocente.
Durante la visione ci sente particolarmente partecipi per il dolore che provano sia Roman che Jsck. In particolare l'interpretazione essenziale, sobria, ma carica di dolore imploso, senza fine,  del buon Arnold, scava nel nostro cuore, portandoci a riflettere a lungo su come ci saremmo comportati al suo posto. Cioè quando la razionalità, l'idea di perdono, la voglia di ricominciare, riprendersi la vita, svaniscono e rimane solo il desiderio di vendicarsi, anche se non lo ammettiamo nemmeno a noi stessi. Ci diciamo che le scuse possano bastare. Ma non è così.
Lo sappiamo benissimo noi che abbiamo trovato una donna che ci ha cambiato la vita, ci ha donato una serenità quotidiana prima quasi sconosciuta, con la quale giorno dopo giorno costruiamo il nostro futuro. Una donna che ci fa commuovere, ridere il sangue nelle vene, e poi un giorno qualcuno ce la porta via. Ha senso vivere? Ha senso superare la sofferenza? Per approdare dove? Quale salvezza o redenzione potremmo mai ottenere dopo una simile tragedia?
Forse dal momento che siamo sopravvissuti a una perdita tanto importante, moriamo anche noi. Continuiamo a mangiare, dormire, guardare la tv, ma dentro di noi siamo finiti e spacciati. L'unico sussulto di vita che possiamo provare è eliminare la causa del nostro dolore. Solo che dalla vendetta non nasce nulla di buono, non c'è una soluzione ai nostri guai o dispiaceri.
 Mi sono sentito molto vicino a Roman, ho provato il suo dolore. Ed ho avuto pietà e compassione per Jack, ma non gli posso perdonare il suo errore di non volersi sentire colpevole, di non accettare la punizione inevitabile che è conseguenza del suo gesto. 
Per quanto il gesto di vendicarsi ala fine crei solo altra rabbia, altri risentimenti. Quindi la soluzione è il perdono. Forse, ma nemmeno quel gesto  potrebbe non cancellare gli anni di violenza soffocata.
Ogni gesto che facciamo, ogni colpa, ogni mancanza, ha una sua amarissima e feroce conseguenza. Ed è impossibile uscirne.
Un film intenso con un grandissimo e credibile Arnold, opera che ci spinge a riflettere e soffrire con i personaggi. Da vedere.
Lo trovate su Netflix.

venerdì 8 maggio 2020

CHI LE HA VISTE MORIRE? di ALDO LADO.

La stagione selvaggia, breve, folgorante del giallo italiano ci ha donato una manciata di pellicole davvero degne di nota.  Film in cui oltre al classico meccanismo noto come "whodunit", cioè la scoperta dell'assassino solo alla fine e dopo una lunga indagine, si sposa magistralmente con elementi più horror, in quanto la violenza è messa al centro dell'azione. Nessuno in questo tipo di film muore in modo che non sia quantomeno doloroso e spettacolare.
C'è una certa urgenza estetica nella ricerca di metodi sempre più efferati di mostrare la crudeltà di cui noi umani siamo capaci.
I padri fondatori di questo genere sono Mario Bava e Dario Argento, anche se come spesso succede vi sono anche altri registi che si adoperavano a costruire le fondamenta del giallo italiano.  Infatti c'è quasi l' imbarazzo della scelta., visto l'alto numero di film che in quel periodo sperimentavano nuovi confini, spostavano sempre oltre l'asticella del dimostrabile e sostenibile.
Tra i tanti ottimi film, c'è anche questo piccolo gioiello di un ottimo artigiano del miglior cinema di genere italico: Chi le ha viste morire?
Il film narra la storia di Franco, uno scultore che vive a Venezia. Un giorno riceve la visita di sua figlia Roberta, che non vede da un po' di tempo. Dopo alcuni giorni passati in totale gioia e allegria la bambina scompare.  L'uomo comincia a cercarla nella speranza che non sia successo nulla di grave, purtroppo non è così. Roberta è stata assassinata.
Sconvolto dalla morte della figlia, lo scultore comincia un'indagine solitaria con lo scopo di trovare l'assassino. Troverà delle analogie con la morte di una bambina in Francia, scoprendo che una sua conoscente lavorava per la famiglia della piccola vittima.  Tuttavia ogni volta che avvicina qualcuno che possa dargli una nano, costoro finiscono uccisi in modi brutali per mano di una donna  vestita di nero, con il viso nascosto da un velo.
La soluzione sarà  a dir poco sconvolgente
Il film si basa su un meccanismo oliato alla perfezione. Ogni elemento è necessario e utile per far un passo in avanti nella trama, infatti non manca mai la tensione, la voglia di scoprire chi sarà mai il colpevole e quali le sue motivazioni.  Lado è straordinario nel metter in scena i vari delitti, tutti abbastanza macabri, ma senza esagerare.  Un perfetto equilibrio tra suspense e violenza.  Oltretutto, prima di far sparire la bambina, la sceneggiatura ( alla quale ha collaborato anche Francesco Barrili  regista di Pensione Paura  tra le altre sue opere) e la regia creano un'atmosfera di grande tenerezza tra il padre e la bimba. Ci affezioniamo a loro, tanto da sperare che Roberta continui a salvarsi dalle mire omicide della misteriosa signora.
I personaggi sono funzionali alla trama, che ben presto punta  a una denuncia esplicita della buona borghesia veneziana, regno di depravazioni sessuali e altro. 
Lado è un  ottimo regista, come abbiamo scritto in precedenza, qui è aiutato anche da una bellissima colonna sonora di Ennio Morricone, e da un cast valido. Protagonista troviamo quel Geroge Lazenby, chce ha interpretato 007 tra un Connery e un Moore,  qui se la cava decentemente nel ruolo di Franco, speriamo sempre che riesca a metter le mani addosso all'assassino. C'è anche un giovane e già molto bravo Alessandro Haber,  nel ruolo di un prete.
Ho trovato vaghi echi di "Non si sevizia un paperino" e altre pellicole analoghe del periodo, ma questo non è un difetto. Anzi.
L'opera la potete trovare su Youtube. Attenzione che c'è una copia in cui manca il prologo, bellissimo, controllate nei commenti che un buon samaritano ha messo una copia intera del film.
Buona visione.