Mi capita spesso di leggere post o commenti di persone amanti del cinema che si lamentano perennemente della situazione del cinema di genere. Hanno ragione, ne facciamo poco. Si lamentano che vi siano troppe commedie o film d'autore. Ci sta. Nondimeno la commedia è un genere ed è quello in cui è possibile affrontare la nostra storia presente o passata. Con qualche alto e molti bassi, anche se non sono affatto così severo come molti che pensano di vivere negli anni 70 senza esserci mai stati e campando su idee prefabbricate da altri. Ci sta anche questo.
Detto questo in questi ultimi tempi non sono mancati film su super eroi proletari, film di motori e drammi famigliari, horror puri con infetti/ zombi. Sì, potrei anche dire che ci sono i Manetti, autori di quel bellissimo musical-camorristico che è " Ammmore e malavita." Come non sono mancate operazioni revival gangster con film come Romanzo Criminale o Vallanzasca. C'è ancora molto da fare e tutto quello che volete. Ma è un argomento talmente vasto che merita un post a parte. Su un altro blog che a me le discussioni sul cinema di genere in Italia annoiano come poche.
Ora capisco la discussione, la nostalgia per i bei tempi, il revival revisionista e tutto quello che volete ma come è che un regista eccezionale, straordinario, come Stefano Sollima non venga glorificato e portato come esempio di puro uomo di cinema (di genere) in grado di farsi amare dagli americani solo dopo due pellicole ( e tanta tv) tanto da affidar a loro il seguito di quel capolavoro che risponde al nome di "Sicario"?
Figlio d'arte (il padre Sergio è ricordato per Sandokan ma ha diretto robusti e assai interessanti film come Revolver o Faccia a Faccia, due splendidi film di genere poliziesco e western) Stefano Sollima si fa conoscere ed amare girando episodi di serie come La Squadra o Gomorra. La cosa che balza all'occhio vedendo le sue opere è il grande senso di ritmo e di creazione dell'epica sfruttando al massimo quello che il genere offre. Il suo è un cinema titanico, epico, profondamente retorico e ridondante, esagerato ed eccessivo, possiamo imputargli un eccessivo compiacimento nel mischiare temi delicati con il puro intrattenimento, a volte ad un passo dalla strumentalizzazione, ma alla fine quello che rimane dopo la visione è la soddisfazione di aver visto un gran bel film.
Succedeva con il suo debutto A.C.A.B. (qui la recensione acab) dove porta sullo schermo quattro poliziotti della celere senza omettere nulla di quanto di poco edificante ci possa essere o fare in quel tipo di lavoro. Certo l'uso della cronaca e dei fatti veri, come anche nelle sue successive pellicole, non sempre riesce bene. Però è un bellissimo film, un esordio davvero da ricordare. Il successivo è quel grande affresco, quella visione potente ed ammaliante che è Suburra ( qui la recensione Suburra)
Ora con Soldado debutta in America.
Sequel di quel bellissimo, magnifico film che è "Sicario", l'opera narra una nuova missione dei personaggi interpretati da Josh Brolin e Benicio Del Toro. Due giustizieri che lavorano in missioni sporche o segrete per conto del governo americano.
Matt Graver e Alejandro Glick questa volta devono far scoppiare una guerra tra le famiglie del Cartello dei narcotrafficanti messicani. L'operazione è un atto di vendetta da parte degli Stati Uniti contro i boss della droga messicana, in quanto ritenuti colpevoli di infiltrare terroristi islamici coi clandestini per farli entrare in America e compiere attentati. Sì, questa parte iniziale mi par un po' campata in aria e di cose un po' campate in aria non mancano nel cinema di Sollima, tuttavia ha la forza e il potere di saperle rendere necessarie per il film e quindi funzionano. I due da una parte uccidono un avvocato assai potente e amico dei boss dall'altra rapiscono la figlia di un pericoloso trafficante di droga ( mandante del massacro che ha colpito la famiglia di Glick). Le cose ovviamente si complicheranno molto e i due si ritroveranno (quasi) soli contro tutti.
Quello che apprezzo di questo sequel è che ha una identità precisa. Lontanissimo dal film precedente ( Villeneuve è regista assai diverso rispetto al nostro connazionale) eppure rispettoso delle identità dei personaggi, che rimangono quasi identici rispetto al primo capitolo. Forse Taylor Sheridan rimane un po' sacrificato a livello di sceneggiatura ( le sue opere precedenti avevano una diversa e più incisiva forza nella trama) ma non ci possiamo nemmeno lamentare. Le tematiche caee a Sheridan in fin dei conti sono presenti anche se il film punta di più sull'azione che sulla psicologia dei personaggi o l'analisi dell'ambiente.
Tuttavia è un ottimo film di genere, entusiasma, coinvolge, sottotraccia fa pensare anche a come l'idea di bene e male, giustizia e vendetta, giusto e sbagliato possono essere effimere. Però può anche portarci a riflettere su come il fine giustifichi i mezzi e che il male va combattuto superandolo in cattiveria.
Questa seconda considerazione la preferisco alla prima, perché non ci concede la distanza necessaria e giusta sul tema. Ci racconta un mondo brutale, violento, dove si vincono le battaglie ma si perde del tutto l'umanità.
Un grande spettacolo, un film avvincente, spero sia l'inizio di una lunga carriera anche in America per il mio amatissimo Stefano Sollima.
mercoledì 21 novembre 2018
sabato 17 novembre 2018
Notti magiche di Paolo Virzì.
1990.
Avevo quattordici anni. Mi apprestavo a cominciare le superiori (povero ragazzino se solo avesti potuto immaginare che decennio del menga sarebbe stato) il mio Paese, come capita ogni quattro anni, riscopriva l'amor patrio grazie al giuoco del calcio. Masse del tutto ignare della nostra storia, senza memoria, i primi gruppi di legaioli, tutti diventarono patrioti fieri della loro terra.
D'altronde i Momdiali li giocavamo proprio a casa nostra. Un grande evento di mazzette, due gocce di corruzione e tanta simpatia. L'anno di Schillaci, di una nazione ignara che tra un paio di anni moltissimi volti noti della politica italiana sarebbero stati spazzati via dalle indagini di Mani Pulite. Berlusconi era ancora quello che con la sua televisione ci rincretiniva con i giochini, la pubblicità, il sogno di una vita da consumatori. Nessuno si immaginava che avrebbe contribuito per venti e passa anni alla devastazione sociale, culturale, morale, politica, del paese. Gli Italiani sognavano guardando Colpo Grosso. E sperando nella vittoria della Nazionale Italiana.
Il 1990 è l'anno di quiete prima della tempesta. Purtroppo il Muro era crollato e cominciava la narrazione del libero mercato, della libertà sotto il capitalismo. Gli Anni 80 (il decennio più volgare e cretino del 900) ci aveva predisposti a un edonismo leggero e sciocco, al riflusso causa di amnesie tra molti ex contestatori. La marcia dei 40.000 piccoli borghesi aveva messo fine a ogni ribellione e sconfitto la classe operaia.
Quando togli la contestazione, la lotta di classe, la coscienza politica alle masse non ti rimane che una nazione di beoti, cialtroni, arrampicatori sociali, misere macchiette, Non ti rimane altro che sognatori di provincia di seconda mano, tristissime ribellioni infantili contro la famiglia e tanto vuoto, tanta amarezza che non sapendola riconoscere cerchi di nascondere dietro a un'esuberanza triviale, squallida che ti porta a diventare uno stereotipo vivente: quello del toscano malato di sesso (non per niente questo personaggio dell'ultimo film di Virzì diventerà amico di Andrea Roncato). Oppure ti fai forza irrigidendoti dietro a una cultura esibita, un'indipendenza che fai fatica a gestire, una ingenuità non accettabile in quegli anni, in quel periodo storico. Tutto il tuo sapere non è arma di ribellione e contestazione, come il personaggio di Stefano Satta Flores, in quel capolavoro che è " C'eravamo tanto amati". In quegli anni un intellettuale tutto di un pezzo, autolesionista, anche un po' egoista poteva lottare contro le istituzioni locali o l'intero mondo per difendere un'Idea alta di arte, cultura e spettacolo. Quei personaggi di Scola uscivano dalla guerra, avevano ancora moltissimi ideali, tantissima voglia di contribuire al cambiamento del mondo. Non erano ancora diventati figure tristi, piegate su sé stesse, con un'idea artistica e culturale debole, provinciale, tutta concentrata su una possibile gloria personale da svendere al primo cialtrone che ci offre un contratto.
In quegli anni cominciammo a perdere e a non ritrovare mai più (sia nel cinema che nella società) cose che fino a qualche anno prima erano fondamentali. Mi riferisco alla condivisione, la voglia di narrare la vita delle persone, di una classe, lo sguardo amarissimo eppure umanissimo che i grandi sceneggiatori e registi sapevano dare alle loro opere. E la rivolta, la riscossa contro il bigottismo, contro i padroni, la voglia di cambiare in modo radicale la società; il movimento operaio che diventava simbolo del lavoro e dei lavoratori. Tutto questo contesto non permetteva a cialtroni e affini di poter far più danni del consentito.
Notti Magiche ci mostra la fine di quel periodo. Una fine per nulla tragica, epica, semmai ridicola e mediocre. Proprio come stava succedendo nel mondo. La fine del socialismo reale attraverso azioni di rara mediocrità, squallore, tristezza. I giornali e le tv ad applaudire chi stava distruggendo per manifesta incapacità L'Unione Sovietica. La falsità dei liberali, che a parole parlavano di una nuova era basata su libertà effimere (le stesse che difendono ora non potendo dar al popolo quelle vere)e di morte della società o fine della storia. In tv si cominciava ad urlare e litigare. E la gente amava tutto questo. Passava l'idea che un mediocre rozzo, volgare, che diceva cose cattive era sincero. Chi difendeva la cortesia, il dialogo, la voglia di comprendere, un ipocrita.
Un mondo volgare e cretino cosa può fare? Dar vita a macchiette tristi.
Questo si nota benissimo in codesta pellicola.
Dei ragazzi sui venti anni negli anni 90 con cosa sono cresciuti? Col nulla.
Assimilando e facendosi scudo con un edonismo cialtrone, l'individualismo narcisista, l'ossessione del sesso, l'idea che se il mondo non mi piace allora posso sballare, perché cosa altro potremmo mai fare?
Quello che balza agli occhi seguendo questi personaggi-simbolo è la totale mancanza di allegria, di desiderio, di vita. Semmai vi è la presenza fissa di un ego chiassoso, il parlarsi addosso, l'ostentare qualcosa ( il toscano una virilità e potenza sessuale pacchiana , il siciliano il suo sapere fine a sé stesso la giovane romana una ribellione patetica nel salotto di casa) e la voglia matta di trovare un oasi felice, magica, dove le nostre capacità vere o presunte possano essere apprezzate.
Per questi tre la retorica che da sempre accompagna il mondo dello spettacolo (popolato da gente leggendaria, mitica, che passa la vita a scrivere e pensare cose meravigliose, lontano dalla mediocre quotidianità della provincia) è una via di fuga dalle loro vite inutili.
Non è il ritratto di tre sceneggiatori, non si parla di gente di cinema, ma di gente che pensa di sapere cosa sia il cinema. Tre individui che come tutti noi non brillano per grandi doti ma cercano qualcosa che possa farli sentire importanti, grandi. Scappano dal loro destino come facciamo anche noi.
Certo forse questa cosa non viene colta dai critici e cinefili de internet, da quelli che sparano giudizi sentendosi Bergman perché hanno fatto due corti applauditi dagli amici di Facebook, dai nipotini di Ghezzi con i loro post ridondanti e inutili. Ecco, tutta questa ciurma che stronca l'ultima pellicola di Virzì non si è nemmeno accorta di quanto siano uguali ai tre protagonisti.
Non gente di cinema, ma gente che parla, scrive a volte fa cinema. Ma con la prospettiva sbagliata di essere artisti, intellettuali, diversi dagli altri.
In realtà sono solo i nipoti o i figlioli di queste tre, a tratti imbarazzanti, macchiette.
Imbarazzanti come siamo noi nella nostra vita quando sogniamo e ci illudiamo di poter far chissà cosa in ambienti mitizzati, ma da tempo decaduti.
Perché in fin dei conti dietro all'illusione e alla bellezza di un lavoro che ti promette gloria, celebrità e danaro che rimane? Un produttore fallito e cialtrone, dei vecchi che passano il loro tempo al ristorante tentando di fermare la fine in lunghe cene e prendendo in giro i giovani, la solitudine di un maestro del cinema che vede in una giovane provinciale un momento di purissima gioia ( come Pessoa la trova nella gente che frequenta una tabaccheria della sua città). C'è una soffusa noia, tristezza, l'arrendersi con cinismo alla decadenza. Tanto dei grandi nomi quanto di quelli che fanno cinema indipendente, contro, di sani principi morali ma alla fine sono dei disgraziati che cercano di rimediare una cena da un gruppo di sprovveduti. Una delle scene più belle di questo film è quando il giovane toscano crede alle parole del regista impegnato e per questo caduto in miseria (per colpa dei cattivissimi produttori e dei venduti mai per la loro pochezza) e si reca a casa di un divetto televisivo il quale cerca il riscatto facendo un film di uno certo spessore. La storia di un operaio che si uccide diventa una sorta di terribile cazzata che però in due frasi del personaggio riescono a identificare tutto un periodo ( che peraltro stiamo vivendo ancora) cioè quello della negazione della sconfitta, o la rappresentazione di personaggi votati alla disperazione. In poche parole attraverso le parole del divetto televisivo ci viene detto che il cinema non può e non vuole rappresentare il vero, il reale, non tanto perché operazione impossibile ma perché rompe le scatole alle masse vedere la loro triste sorte anche sullo schermo. In quel momento, breve e unico, il triviale toscano si perde nel ricordo doloroso e vero del padre. Troppo dolore da sopportare quindi da allontanare a tutti i costi con la recita della macchietta che si è costruito.
Anche i suoi compagni di sventura fanno la stessa cosa. Il messinese è pronto a farsi prendere in giro, sfruttare, pur di non tornare a casa. Pur di non dover vivere una vita con una donna che non ama ma frequenta per abitudine. Sopratutto perché quel produttore cialtrone e quella vita sguaiata a lui piace. Anche se è costretto a difendere il suo stereotipo di intellettuale.
Questi tre non sanno cosa vogliono, ostentano la loro mediocrità urlata al mondo, e si fanno trascinare, sconvolgere da un ambiente incapace di creare miti e leggende, ormai ridotto a parcheggio per vecchie glorie, attricette, marpioni, specchio di un'Italia che balla in discoteca come un suo ministro mentre fuori si sta preparando la loro fine.
Forse questi tre ci danno fastidio perché in parte parlano di noi. Di quanto siamo deboli, stereotipati, mediocri, incapaci di sostenere la pesantezza e brutalità della vita,
Quindi questo film anche imperfetto, non del tutto riuscito ma che a me è piaciuto assai proprio per quella sua amarezza senza riscatto che nel finale diventa un piccolo tributo alla quotidianità, a una possibile serenità nata dalla consapevolezza di essere stati dei cretini con sogni cretini..cosa vuol comunicarci? Cosa vorrebbe essere? Quali i suoi punti di riferimento? Di sicuro non è la Grande Bellezza di Virzì. Tra tutte le critiche questa è proprio la più imbarazzante e fuori contesto. Non hanno nulla in comune. Non parlano delle stesse persone, dello stesso periodo, non basta esser ambientato a roma , mostrare una certa classe "culturale" per diventare un'opera affine a quella di Sorrentino. Per cui questa cosa leviamola proprio dalla testa e dai nostri articoli. Come altro paragone che non vuol dire nulla, quello che tira in ballo "8 e mezzo", Virzì non è regista da fellinismi. Non lo è mai stato. Qui Fellini viene citato ma fuori dal mito, dalla leggenda, anche lui quasi in decadenza. Ultimo a cercar di far poesia in un tempo che non la voleva per nulla.
Semmai i riferimenti vanno cercati sicuramente nella commedia italiana classica ma sopratutto in due opere di Virzì: Ferie d'Agosto e Caterina va in città. Cioè quei film in cui il regista e sceneggiatore livornese vuol descrivere non tanto dei personaggi ma il contesto che li genera e per questo sullo schermo non avremo due persone come Beatrice e Donatella, non ci imbatteremo in personaggi scritti con attenzione e umanità, ricchi di sfumature, ma dei personaggi-simbolo prodotti del loro tempo e della loro società. Personaggi disumanizzati, svuotati, pacchiani, e che ragionano e agiscono per stereotipi, perché non possono fare altro. Che siano italiani in vacanza, rappresentazione della nuova destra e della sinistra borghese e pacifista o descrizione degli illusi e della decadenza nel mondo del cinema, in queste pellicole i personaggi sono schiacciati, ridotti a figurine senza spessore, volutamente
Operazione che potrebbe anche non essere gradita( io dopo Caterina va in città avevo rotto col cinema di Virzì ma all'epoca ero un invasato pseudo rivoluzionario non capivo quanto fossi una macchietta stereotipata come non lo capiscono i personaggi di Notti magiche e alcuni dei suoi detrattori) e apprezzata per tante buone ragioni.
Io reputo codesta pellicola un amarissimo, malinconico, omaggio al cinema e alla vita. Un omaggio non agiografico, senza mitizzare niente e nessuno ma carico di quella umanissima pietà e compassione per quelle creature imperfette. cialtrone, deboli eppure importanti che sono gli esseri umani.
Virzì e Archibugi potevano far un film sulla bellezza di far cinema. Su come quel tipo di ambiente abbia una sua magia, ritrarre le persone importanti con cui hanno collaborato con abbondanti dosi di retorica su quanto siano stati grandi e illuminati, invece hanno rappresentato una cruda e banale realtà. Avendo anche la forza di non fare dei tre protagonisti le loro rappresentazioni filmiche, Avendo anche il buon gusto di non dipingerli come tre moschettieri pieni di grazia, intelligenza, sensibilità e spessore contro i soliti cattivi dell'industria, ma come spesso siamo nella realtà: rincretiniti dentro sogni vaghi, persi nel recitare pessimi ruoli, mediocri. Questo può anche dar fastidio se siamo ossessionati dall'anti retorica cerebrale, dal pretendere che nella vita non siamo mai delle macchiette stereotipate in cerca d'autore, ma persone dolcemente complicate e piene di genialità.
Un mondo mediocre non può che generare arte e spettacolo mediocre, fatto e gestito da mediocri.
Non si tratta di sputare nel piatto in cui mangio ( che poi faccio notare... a te che frega se sputo nel mio piatto. Ci mangio io) ma di una rappresentazione verosimile ad opera di persone che quel mondo ( al contrario dei critici e cinefili de internet e di chi ha fatto un video con gli amici) lo conoscono benissimo e possono rappresentarlo come meglio garba a loro.
Inoltre questo film omaggia con tenerezza e senza svenevolezza alcuna, il grande Furio Scarpelli. In quei momenti l'omaggio si inchina a un commosso ricordo e nelle parole, negli insegnamenti sempre molto crudi e per nulla campati in aria di questo straordinario sceneggiatore, forse, per pochi secondi, ci viene svelato cosa è il cinema: " Guarda fuori dalla finestra."
Avevo quattordici anni. Mi apprestavo a cominciare le superiori (povero ragazzino se solo avesti potuto immaginare che decennio del menga sarebbe stato) il mio Paese, come capita ogni quattro anni, riscopriva l'amor patrio grazie al giuoco del calcio. Masse del tutto ignare della nostra storia, senza memoria, i primi gruppi di legaioli, tutti diventarono patrioti fieri della loro terra.
D'altronde i Momdiali li giocavamo proprio a casa nostra. Un grande evento di mazzette, due gocce di corruzione e tanta simpatia. L'anno di Schillaci, di una nazione ignara che tra un paio di anni moltissimi volti noti della politica italiana sarebbero stati spazzati via dalle indagini di Mani Pulite. Berlusconi era ancora quello che con la sua televisione ci rincretiniva con i giochini, la pubblicità, il sogno di una vita da consumatori. Nessuno si immaginava che avrebbe contribuito per venti e passa anni alla devastazione sociale, culturale, morale, politica, del paese. Gli Italiani sognavano guardando Colpo Grosso. E sperando nella vittoria della Nazionale Italiana.
Il 1990 è l'anno di quiete prima della tempesta. Purtroppo il Muro era crollato e cominciava la narrazione del libero mercato, della libertà sotto il capitalismo. Gli Anni 80 (il decennio più volgare e cretino del 900) ci aveva predisposti a un edonismo leggero e sciocco, al riflusso causa di amnesie tra molti ex contestatori. La marcia dei 40.000 piccoli borghesi aveva messo fine a ogni ribellione e sconfitto la classe operaia.
Quando togli la contestazione, la lotta di classe, la coscienza politica alle masse non ti rimane che una nazione di beoti, cialtroni, arrampicatori sociali, misere macchiette, Non ti rimane altro che sognatori di provincia di seconda mano, tristissime ribellioni infantili contro la famiglia e tanto vuoto, tanta amarezza che non sapendola riconoscere cerchi di nascondere dietro a un'esuberanza triviale, squallida che ti porta a diventare uno stereotipo vivente: quello del toscano malato di sesso (non per niente questo personaggio dell'ultimo film di Virzì diventerà amico di Andrea Roncato). Oppure ti fai forza irrigidendoti dietro a una cultura esibita, un'indipendenza che fai fatica a gestire, una ingenuità non accettabile in quegli anni, in quel periodo storico. Tutto il tuo sapere non è arma di ribellione e contestazione, come il personaggio di Stefano Satta Flores, in quel capolavoro che è " C'eravamo tanto amati". In quegli anni un intellettuale tutto di un pezzo, autolesionista, anche un po' egoista poteva lottare contro le istituzioni locali o l'intero mondo per difendere un'Idea alta di arte, cultura e spettacolo. Quei personaggi di Scola uscivano dalla guerra, avevano ancora moltissimi ideali, tantissima voglia di contribuire al cambiamento del mondo. Non erano ancora diventati figure tristi, piegate su sé stesse, con un'idea artistica e culturale debole, provinciale, tutta concentrata su una possibile gloria personale da svendere al primo cialtrone che ci offre un contratto.
In quegli anni cominciammo a perdere e a non ritrovare mai più (sia nel cinema che nella società) cose che fino a qualche anno prima erano fondamentali. Mi riferisco alla condivisione, la voglia di narrare la vita delle persone, di una classe, lo sguardo amarissimo eppure umanissimo che i grandi sceneggiatori e registi sapevano dare alle loro opere. E la rivolta, la riscossa contro il bigottismo, contro i padroni, la voglia di cambiare in modo radicale la società; il movimento operaio che diventava simbolo del lavoro e dei lavoratori. Tutto questo contesto non permetteva a cialtroni e affini di poter far più danni del consentito.
Notti Magiche ci mostra la fine di quel periodo. Una fine per nulla tragica, epica, semmai ridicola e mediocre. Proprio come stava succedendo nel mondo. La fine del socialismo reale attraverso azioni di rara mediocrità, squallore, tristezza. I giornali e le tv ad applaudire chi stava distruggendo per manifesta incapacità L'Unione Sovietica. La falsità dei liberali, che a parole parlavano di una nuova era basata su libertà effimere (le stesse che difendono ora non potendo dar al popolo quelle vere)e di morte della società o fine della storia. In tv si cominciava ad urlare e litigare. E la gente amava tutto questo. Passava l'idea che un mediocre rozzo, volgare, che diceva cose cattive era sincero. Chi difendeva la cortesia, il dialogo, la voglia di comprendere, un ipocrita.
Un mondo volgare e cretino cosa può fare? Dar vita a macchiette tristi.
Questo si nota benissimo in codesta pellicola.
Dei ragazzi sui venti anni negli anni 90 con cosa sono cresciuti? Col nulla.
Assimilando e facendosi scudo con un edonismo cialtrone, l'individualismo narcisista, l'ossessione del sesso, l'idea che se il mondo non mi piace allora posso sballare, perché cosa altro potremmo mai fare?
Quello che balza agli occhi seguendo questi personaggi-simbolo è la totale mancanza di allegria, di desiderio, di vita. Semmai vi è la presenza fissa di un ego chiassoso, il parlarsi addosso, l'ostentare qualcosa ( il toscano una virilità e potenza sessuale pacchiana , il siciliano il suo sapere fine a sé stesso la giovane romana una ribellione patetica nel salotto di casa) e la voglia matta di trovare un oasi felice, magica, dove le nostre capacità vere o presunte possano essere apprezzate.
Per questi tre la retorica che da sempre accompagna il mondo dello spettacolo (popolato da gente leggendaria, mitica, che passa la vita a scrivere e pensare cose meravigliose, lontano dalla mediocre quotidianità della provincia) è una via di fuga dalle loro vite inutili.
Non è il ritratto di tre sceneggiatori, non si parla di gente di cinema, ma di gente che pensa di sapere cosa sia il cinema. Tre individui che come tutti noi non brillano per grandi doti ma cercano qualcosa che possa farli sentire importanti, grandi. Scappano dal loro destino come facciamo anche noi.
Certo forse questa cosa non viene colta dai critici e cinefili de internet, da quelli che sparano giudizi sentendosi Bergman perché hanno fatto due corti applauditi dagli amici di Facebook, dai nipotini di Ghezzi con i loro post ridondanti e inutili. Ecco, tutta questa ciurma che stronca l'ultima pellicola di Virzì non si è nemmeno accorta di quanto siano uguali ai tre protagonisti.
Non gente di cinema, ma gente che parla, scrive a volte fa cinema. Ma con la prospettiva sbagliata di essere artisti, intellettuali, diversi dagli altri.
In realtà sono solo i nipoti o i figlioli di queste tre, a tratti imbarazzanti, macchiette.
Imbarazzanti come siamo noi nella nostra vita quando sogniamo e ci illudiamo di poter far chissà cosa in ambienti mitizzati, ma da tempo decaduti.
Perché in fin dei conti dietro all'illusione e alla bellezza di un lavoro che ti promette gloria, celebrità e danaro che rimane? Un produttore fallito e cialtrone, dei vecchi che passano il loro tempo al ristorante tentando di fermare la fine in lunghe cene e prendendo in giro i giovani, la solitudine di un maestro del cinema che vede in una giovane provinciale un momento di purissima gioia ( come Pessoa la trova nella gente che frequenta una tabaccheria della sua città). C'è una soffusa noia, tristezza, l'arrendersi con cinismo alla decadenza. Tanto dei grandi nomi quanto di quelli che fanno cinema indipendente, contro, di sani principi morali ma alla fine sono dei disgraziati che cercano di rimediare una cena da un gruppo di sprovveduti. Una delle scene più belle di questo film è quando il giovane toscano crede alle parole del regista impegnato e per questo caduto in miseria (per colpa dei cattivissimi produttori e dei venduti mai per la loro pochezza) e si reca a casa di un divetto televisivo il quale cerca il riscatto facendo un film di uno certo spessore. La storia di un operaio che si uccide diventa una sorta di terribile cazzata che però in due frasi del personaggio riescono a identificare tutto un periodo ( che peraltro stiamo vivendo ancora) cioè quello della negazione della sconfitta, o la rappresentazione di personaggi votati alla disperazione. In poche parole attraverso le parole del divetto televisivo ci viene detto che il cinema non può e non vuole rappresentare il vero, il reale, non tanto perché operazione impossibile ma perché rompe le scatole alle masse vedere la loro triste sorte anche sullo schermo. In quel momento, breve e unico, il triviale toscano si perde nel ricordo doloroso e vero del padre. Troppo dolore da sopportare quindi da allontanare a tutti i costi con la recita della macchietta che si è costruito.
Anche i suoi compagni di sventura fanno la stessa cosa. Il messinese è pronto a farsi prendere in giro, sfruttare, pur di non tornare a casa. Pur di non dover vivere una vita con una donna che non ama ma frequenta per abitudine. Sopratutto perché quel produttore cialtrone e quella vita sguaiata a lui piace. Anche se è costretto a difendere il suo stereotipo di intellettuale.
Questi tre non sanno cosa vogliono, ostentano la loro mediocrità urlata al mondo, e si fanno trascinare, sconvolgere da un ambiente incapace di creare miti e leggende, ormai ridotto a parcheggio per vecchie glorie, attricette, marpioni, specchio di un'Italia che balla in discoteca come un suo ministro mentre fuori si sta preparando la loro fine.
Forse questi tre ci danno fastidio perché in parte parlano di noi. Di quanto siamo deboli, stereotipati, mediocri, incapaci di sostenere la pesantezza e brutalità della vita,
Quindi questo film anche imperfetto, non del tutto riuscito ma che a me è piaciuto assai proprio per quella sua amarezza senza riscatto che nel finale diventa un piccolo tributo alla quotidianità, a una possibile serenità nata dalla consapevolezza di essere stati dei cretini con sogni cretini..cosa vuol comunicarci? Cosa vorrebbe essere? Quali i suoi punti di riferimento? Di sicuro non è la Grande Bellezza di Virzì. Tra tutte le critiche questa è proprio la più imbarazzante e fuori contesto. Non hanno nulla in comune. Non parlano delle stesse persone, dello stesso periodo, non basta esser ambientato a roma , mostrare una certa classe "culturale" per diventare un'opera affine a quella di Sorrentino. Per cui questa cosa leviamola proprio dalla testa e dai nostri articoli. Come altro paragone che non vuol dire nulla, quello che tira in ballo "8 e mezzo", Virzì non è regista da fellinismi. Non lo è mai stato. Qui Fellini viene citato ma fuori dal mito, dalla leggenda, anche lui quasi in decadenza. Ultimo a cercar di far poesia in un tempo che non la voleva per nulla.
Semmai i riferimenti vanno cercati sicuramente nella commedia italiana classica ma sopratutto in due opere di Virzì: Ferie d'Agosto e Caterina va in città. Cioè quei film in cui il regista e sceneggiatore livornese vuol descrivere non tanto dei personaggi ma il contesto che li genera e per questo sullo schermo non avremo due persone come Beatrice e Donatella, non ci imbatteremo in personaggi scritti con attenzione e umanità, ricchi di sfumature, ma dei personaggi-simbolo prodotti del loro tempo e della loro società. Personaggi disumanizzati, svuotati, pacchiani, e che ragionano e agiscono per stereotipi, perché non possono fare altro. Che siano italiani in vacanza, rappresentazione della nuova destra e della sinistra borghese e pacifista o descrizione degli illusi e della decadenza nel mondo del cinema, in queste pellicole i personaggi sono schiacciati, ridotti a figurine senza spessore, volutamente
Operazione che potrebbe anche non essere gradita( io dopo Caterina va in città avevo rotto col cinema di Virzì ma all'epoca ero un invasato pseudo rivoluzionario non capivo quanto fossi una macchietta stereotipata come non lo capiscono i personaggi di Notti magiche e alcuni dei suoi detrattori) e apprezzata per tante buone ragioni.
Io reputo codesta pellicola un amarissimo, malinconico, omaggio al cinema e alla vita. Un omaggio non agiografico, senza mitizzare niente e nessuno ma carico di quella umanissima pietà e compassione per quelle creature imperfette. cialtrone, deboli eppure importanti che sono gli esseri umani.
Virzì e Archibugi potevano far un film sulla bellezza di far cinema. Su come quel tipo di ambiente abbia una sua magia, ritrarre le persone importanti con cui hanno collaborato con abbondanti dosi di retorica su quanto siano stati grandi e illuminati, invece hanno rappresentato una cruda e banale realtà. Avendo anche la forza di non fare dei tre protagonisti le loro rappresentazioni filmiche, Avendo anche il buon gusto di non dipingerli come tre moschettieri pieni di grazia, intelligenza, sensibilità e spessore contro i soliti cattivi dell'industria, ma come spesso siamo nella realtà: rincretiniti dentro sogni vaghi, persi nel recitare pessimi ruoli, mediocri. Questo può anche dar fastidio se siamo ossessionati dall'anti retorica cerebrale, dal pretendere che nella vita non siamo mai delle macchiette stereotipate in cerca d'autore, ma persone dolcemente complicate e piene di genialità.
Un mondo mediocre non può che generare arte e spettacolo mediocre, fatto e gestito da mediocri.
Non si tratta di sputare nel piatto in cui mangio ( che poi faccio notare... a te che frega se sputo nel mio piatto. Ci mangio io) ma di una rappresentazione verosimile ad opera di persone che quel mondo ( al contrario dei critici e cinefili de internet e di chi ha fatto un video con gli amici) lo conoscono benissimo e possono rappresentarlo come meglio garba a loro.
Inoltre questo film omaggia con tenerezza e senza svenevolezza alcuna, il grande Furio Scarpelli. In quei momenti l'omaggio si inchina a un commosso ricordo e nelle parole, negli insegnamenti sempre molto crudi e per nulla campati in aria di questo straordinario sceneggiatore, forse, per pochi secondi, ci viene svelato cosa è il cinema: " Guarda fuori dalla finestra."
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