mercoledì 28 aprile 2021

MINARI di LEE ISAC CHUNG.

 Il minari è un ortaggio che cresce un po' dappertutto, come le erbacce. In questo modo la nonna del giovane protagonista spiega una verdura coreana, come un tentativo di rammentare al bambino che, seppur nato e cresciuto in occidente e in  America, rimarrà per sempre un coreano. Ed è anche la metafora della resistenza umana, della sua tenacia anche quando le cose vanno male. 

Tuttavia cosa rimane della nazione d'origine, quando vivi da anni in un altro contesto? Una nostalgia di comodo, consolatoria, un prender le distanze da una cultura estranea ma che hai scelto (visto che la Corea rimane come un ombra sottile o un chiacchiericcio di fondo più che una sincera voglia di ritornare o ribadire le tue origini) ma che ti viene in aiuto quando ti accorgi che non sei visto come un cittadino americano dalla popolazione locale, però non puoi nemmeno più dirti coreano. Il cibo, come sempre, è metafora di orgoglio per la terra che ti ha dato i natali, o ai tuoi nonni o genitori, ma anche di una superficiale riscoperta o tentativo di mantener in vita una cosa che hai perduto per strada. Questo è il dramma di qualsiasi immigrante o emigrante.  Scontrarsi col desiderio di ambientarsi totalmente nella nuova patria che abbiamo scelto e la sottile disperazione di non comprenderla del tutto. Voler tornare indietro per sentirsi al sicuro. L'immigrato socialmente "non è". Fa parte di una categoria molto ambigua, difficile, complessa, ci vogliono generazioni prima che si diventi davvero cittadino della seconda patria, mentre la prima rimane uno stereotipo, un piatto da cucinare, un ortaggio.

Pensate un po' come è complicata la vita quando si decide di trasferirsi in America. Non una semplice nazione, non una nuova patria, ma la terra del Sogno Americano, delle libertà e opportunità. Te la vendono bene codesta scemenza e ci caschi sempre. Dai tempi dei tuoi bisnonni, se non prima. Questa idea del sogno pesa sulla vite degli americani come un macigno, figuriamoci su chi si è trasferito per scappare alla miseria e si ritrova povero nella terra dove basta un po' di impegno e i soldi ti cascano addosso. Il risveglio è brusco, violento,  e ti pone una domanda non da poco: " Cosa fare? Mollare tutto oppure ridimensionare le aspettative, non temere il fallimento e perseverare?"
Questo è quello che capita a Jacob, il padre della famiglia Yi, dopo anni a far lavori umili lascia la California per andar a perdersi in un posto abbandonato da dio,(e per questo pregato con forza dai suoi abitanti) nell'Arkansans.  La disillusione ci viene già mostrata nella prima immagine. Monica, la moglie del nostro agricoltore improvvisato, vede la desolazione, il nulla, un posto ostile. E comincia a picconare ogni decisione e idea del consorte.  La situazione si fa talmente pesante che decidono di chiamare dalla Corea del Sud l'adorabile suocera. 

La figura dell'anziana signora porta scompiglio in particolare nella vita del piccolo David. Non solo per una naturale timidezza di fronte a una persona mai vista prima, ma anche perché la donna non si comporta affatto da classica nonna. Non fa i biscotti, non racconta favole, nemmeno aiuta in casa come ci si aspetta da una persona di una certa età.  Il suo carattere anti convenzionale aiuterà il bambino a esser meno timoroso nei confronti della vita.  Però, e per me questo è un merito, non cambia del tutto il quadro generale.
Che rimane una situazione al limite del disastro, perché la volontà e l'impegno, il duro lavoro, non bastano. Ci sono tanti altri fattori che, qualora venissero sottovalutati, potrebbero determinare un successo o un fallimento. 
Io ho trovato interessante e ben fatto il personaggio del padre perché rappresenta un uomo che comprende il disastro, ma non vuole fermarsi, abbandonare, scappare -come invece vuol fare da subito la moglie-  da quel pezzo di terra che gli offre solo fatica e bestemmie.  Non c'è ottusità in costui, ma la tenacia di non farsi sopraffare dalla sconfitta. A volte codesto comportamento scade in scemenza pura, altre volte invece ha del commovente. 
Un destino segnato che attira la simpatia e il sostegno di Paul, un uomo spacciato, escluso, isolato, folle con le sue preghiere ossessive e senza senso, ma che diventa il bastone con cui Jacob può sostenersi. Questa amicizia virile, come spesso succede quando si parla di amicizia tra uomini, vive di non detto, percepito, eppure profondo, radicato, forte.
L'immagine che ci restituisce il film è quella di un'America povera, dimenticata, ma che si alza ogni giorno per cercare di resistere, se non proprio vincere. La narrazione è imposta sull'empatia verso questi personaggi, le loro vite, i loro difetti e pregi. Queste sono le cose che mi son garbate del film: la voglia di rendere protagonista la classe proletaria americana, quelli che sono dalla parte sbagliata del sogno, che siano nati lì o migrati.
Però...
Cosa non funzione nel film? La mancanza di coraggio nel voler dar una sferzata tragica, potente, viscerale, di entrare con pienezza nelle vite dei suoi protagonisti, nel dramma.  Il distacco, trattenersi, va bene, ma ci deve essere allora una regia che sa creare atmosfere rarefatte, impalpabili, soffuse, attraverso una abbacinante costruzione dell'immagine, dell'umano perso e sciolto nella natura, che diventa protagonista distante e inaccessibile, ma presente in qualche modo.  La vita quotidiana è fatta di sofferenze e dolori che rimangono spesso implosi,  ma il cinema ha bisogno del contrario. Proprio gli americani, quando non si fanno prender dalla malattia indie da Sundance, ci hanno regalato opere rurali viscerali e di grande possanza. Perché il contesto è per forza di cose epico e doloroso: l'uomo che sfida il destino e la natura. 
Oppure puoi anche fare un film intimista, minimalista, che narra piccolissime cose, ma a questo punto diventa importante anche distogliere l'attenzione dal problema centrale del film, cioè come evitare il tracollo, e dai più spazio, lo rendi profondo, al rapporto tra la nonna e i nipoti, la nostalgia percepita o reale della patria che si è lasciata alle spalle. Ci sta, può venir fuori un buon lavoro.
Invece l'opera è inerte e incerta, affronta tanti temi, ma non approfondisce nulla.  Rimane un film con immagini anche convenzionali, che ha il pregio di narrare l'america minuscola, piccola, anche evitando certi stereotipi ( i locali non sono razzisti, che semmai subiscono l'astio di Monica che li giudica zotici)  ma non riesce a diventare puro cinema. Cosa che capita spesso in questi anni. Il cinema ridotto a prodotti usa e getta, né belli né brutti, fatti per esser visti, più o meno apprezzati e poi dimenticati.  Non  si vuol toccare nessun nervo scoperto, si vuol evitare la titanica potenza del dolore, ma allo stesso tempo non si è imparato nulla dalla lezione dei film di Capra o Spielberg, per cui non  c'è nemmeno un reale discorso umanista, di amore e speranza.
Tutto un po' sotto tono, didascalico, salvato da alcune intuizioni, tematiche, rappresentazioni, per nulla scontate in un mondo in cui anche i progressisti detestano i zotici e i proletari, ma che non diventa nulla. E una regia abbastanza anonima non aiuta in nessun caso.
Per cui non brutto come è stato descritto da molti, ma nemmeno un'opera per cui spender parole di assoluto entusiasmo.



2 commenti:

Mr Ink ha detto...

Io, nella sua semplicità, l'ho amato. È un film di un candore e di una grazia che, di questi tempi, fanno bene alla salute.

babordo76 ha detto...

Si, ha una sua empatia ben evidente nei confronti dei personaggi e dell'ambiente. Infatti a me non è dispiaciuto totalmente, come a mia moglie, ho trovato elementi di reale interesse, ma alla fine un senso di incompiuto, opera inerte, che sfugge una cosa classica nel cinema coreano come una certa propensione al melodramma e si sofferma, mostrando la natura di prodotto indie americano, sulle regole di un certo cinema trattenuto che non mi garba.
Voglio le muccinate, accipicchia!