Per quanto mi riguarda è bello ricredersi sulle qualità di un regista e del suo cinema. Perché conferma il fatto che si possa migliorare, trovare il coraggio per "stupire" il proprio pubblico di riferimento e tentare di avventurarsi in territori diversi.
Rischioso? Assolutamente, per via della pigrizia intellettuale di certo pubblico e anche di molti addetti ai lavori, che siano critici o colleghi con alle spalle un corto girato cogli amici del bar. Per costoro un regista, allargando la questione, un uomo, non può vivere una crescita personale, rimarrà sempre quello che faceva commediole stupide.
Il "classico regista di commedie italiane", un'onta indelebile. Un marchio d'infamia che rimarrà per tutta la vita, impresso a fuoco sulla carne del regista.
Il problema, però, non è tanto il direttore delle commediole, ma la cecità intellettuale di pubblico, critica e stimati colleghi.
Per questo motivo voglio confessare un cambio di giudizio da parte del sottoscritto, su un regista assai noto per film non proprio riusciti, ma che da un paio di pellicole, ha dimostrato un netto miglioramento, riuscendo a portarmi al cinema e a farmi amare profondamente le sue ultime pellicole, mi riferisco a : Paolo Genovese.
I più attenti avevano notato, già nella precedente opera - quel piccolo e meraviglioso gioiello che risponde al nome de " Perfetti Sconosciuti"- un passo in avanti rispetto alle pellicole precedenti. Niente di troppo definitivo, piuttosto sfumature ben precise sui personaggi e le situazioni. Un film decisamente mainstream, ma che prova a far riflettere il suo pubblico di riferimento, un pubblico-massa non proprio indisciplinato, su alcune contraddizioni, deviazioni, nei legami di coppia e amicizia. L'intento serio veniva mitigato da momenti di pura comicità, i quali non erano - come in precedenza- il fine per identificare l'oggetto filmico e le sue intenzioni, ma un mezzo per far passare concetti molto più profondi o seri. Il bellissimo finale, non compreso da molti che lo considerarono " buonista", faceva intendere la voglia di distaccarsi dal passato e tentare nuove strade.
Oggi questo tentativo ha un nome : The Place.
Il film è la trasposizione su grande schermo di una serie tv americana , The booth at the end, opera che non ho ancora visto, per cui - e per fortuna- il mio sguardo è scevro da ogni tipo di confronto inopportuno tra originale e versione italiana. Dovremmo esser abbastanza adulti per capire che ogni regista ha una sua sensibilità, per questo uno stesso soggetto , in linea di massima, potrebbe esser altro rispetto a quello che è l'originale.
Tornando al film, mentre lo guardavo pensavo che Genovese con questa pellicola ha fatto davvero un'opera spartiacque, di divisione e rottura col suo passato. Senza proclami altisonanti, senza volersi snaturare troppo, ma è chiaro che questo film sia un tentativo di "far altro", di prendersi anche dei bei rischi.
Perché chi seguiva la sua carriera, si aspetta commedie disimpegnate, un po' conformiste, da seguire mentre fai o pensi ad altro, e questo non è il caso di The Place, visto che richiede massima attenzione e partecipazione nei confronti dei personaggi, sicchè a molti codesto cambiamento potrebbe non garbare. Ad altri invece risulterebbe stonata la pretesa di un regista di film commerciali, d'incasso, di voler fare "cose serie". Un'imperdonabile invasione di campo.
Poi ci siamo noi spettatori indisciplinati, che concediamo sempre fiducia e solidarietà agli artisti che mettono impegno nelle loro opere: per farci ridere, emozionare, pensare.
In molti casi veniamo premiati colla visione di film assolutamente riusciti: come in questo caso
Un uomo misterioso, perennemente seduto ad un tavolino di un bar- ristorante, incontra diversi tipi umani: tutti hanno un desiderio, un obiettivo da realizzare o raggiungere. Spesso questi desideri od obiettivi sono molto seri, tanto che costoro accettano i compiti ingrati proposti dal misterioso uomo in cambio della propria soddisfazione.
Chi vuole che il marito malato di Alzheimer torni in sé, chi vuol salvare il proprio figlio da una malattia terribile, chi vuol ritrovare Dio, tantissime sono le richieste.
Il mio primo pensiero è stato sul fatto di come noi esseri umani siamo vittime delle nostre speranze, fantasie, dolori, e che questi ultimi non possano essere classificati tra importanti e meno.
Il personaggio di Silvia D'Amico, una ragazza decisamente carina che si vede brutta e accetta di far una rapina per diventare bella, ha la stessa drammaticità del personaggio di Vinicio Marchioni, un padre disperato per la malattia gravissima del figlio e per questo disposto a uccidere una bambina al fine di salvar il suo pargolo.
Perché la sofferenza, come la bramosia, non si pongono il dilemma della fame nel mondo, di chi dorme per strada, attraversa i mari su barconi, o tutte le Grandi Cose, che stanno a cuore a quelli che sanno solo giudicare a cuor leggero il dolore altrui. I giorni persi dietro a desideri bassi e volgari, o a dolori da poco, ridicole speranze e illusioni patetiche, sono gli stessi che passerebbero e ci farebbero soffrire se fossimo costantemente impegnati in grandi cause collettive.
Sono egoisti i protagonisti di questo film? Non so. In realtà i loro desideri, quasi tutti, sono legati a un momento di incontro/scontro col mondo, che non sanno affatto manovrare e per questo scelgono la strada semplice e facile: affidarsi a chi, non importa come, riesce a realizzare la nostra richiesta
Domanda e offerta, come se la nostra vita fosse un prodotto messo sul mercato, che ha bisogno di bilanci, tagli, nuova gestione, saldi. Alla fine una delle letture di questa opera, potrebbe esser anche questa, o perlomeno è quello che ho pensato vedendo il film
Cosa però ci accomuna tutti in questi tempi indecisi e confusi? La mancanza di responsabilità unità a un'idea distorta e individualista di libertà individuale. I personaggi compiono certe scelte per concretizzare un loro bisogno di libertà individuale, "io voglio, io ho bisogno" che però si scontra col discorso di scelta e responsabilità personale. Il personaggio misterioso del sempre ottimo Valerio Mastandrea, li avverte di continuo: puoi dire no. Costoro invece se la prendono con lui, proiettando quello che sono nel profondo, sul tizio che hanno davanti. In questo modo possono dire a sé stessi cose terribili, ma le sotterrano sotto il classico scarica barile nei confronti dello sconosciuto.
Opera che ho trovato molto simbolica, metaforica, per via di un bar che mi par fuori da ogni spazio e tempo, un posto che richiama a sé i personaggi, sconosciuti che però per mille motivi si incontrano/scontrano, determinano la vita e le azioni degli altri, il personaggio di Mastandrea, che non vediamo mai entrare o uscire, come se si manifestasse e scomparisse coll'apertura e chiusura del posto.
Per questo motivo trovo importante il personaggio della Ferilli: il suo compito è quello di esser speculare al personaggio di Mastandrea. Simbolo della compassione, della pietà, del bene, che vede e avverte il buono anche nel Male.
In questi giorni, ripensandoci, però penso che vi sia un simbolismo meno biblico-cristiano, quelli ormai sono affari di Aronofsky, e più "umanista". Per cui sono giunto alla conclusione che la cameriera e il misterioso cliente, siano complementari: entrambi parti di quel sistema complesso e contraddittorio, che è : l'essere umano.
Lei è la nostra parte migliore: quella meno rigida, portata a comprendere e consolare gli altri e sé stessi. Quella parte che una volta trovata e non allontanata, ci rende persone migliori.
The Place è un bellissimo film sul fatto che siamo noi artefici del nostro destino, sulle scelte e responsabilità che dobbiamo affrontare in ogni caso, senza delegare o dar colpa ad altri. Un'opera "popolare", non esente magari da alcune superficialità, o momento meno felice, come capita a tutti i film, capace di regalare comunque pensieri e suggestioni niente affatto banali.
Bravissimo Genovese, un regista in grado di gestire discorsi "seri", per un pubblico vasto e popolare.
lunedì 13 novembre 2017
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