mercoledì 25 novembre 2015

CASTAWAY ON THE MOON di LEE HAE JUN


Nel cinema, per me, conta tanto anche il modo di dire certe cose. Il come. Perché, talora, potrai avere anche delle bellissime idee a disposizione, ma se non sai come trasmettere un messaggio, sviluppare l'empatia per i personaggi, rendere "la solita storia" qualcosa di interessante, rischi di fallire e anche miseramente.
Nella maggioranza dei casi, o è puramente fortuna, devo dire che nei casi del cinema orientale ho trovato spesso questa grande attenzione al come metter in scena una storia, non solo dal punto di vista tecnico, ma anche come scelte "umanistiche". E questa cosa mi garba assai.

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Prendiamo codesta pellicola. Alla base c'è una bella storia d'amore. Credo che sarebbe uscito un buon film ugualmente anche se sviluppato diversamente, ma mantenendo la cosa fondamentale per la riuscita di una pellicola: i personaggi. Nondimeno è proprio l'azzeccatissimo mix grottesco e sentimentale a rendere gustosissima e riuscita questa ottima commedia coreana.
Di cosa parla? Di un uomo che tenta di suicidarsi e finisce, trasportato dalle correnti del fiume Han, su un isolotto disabitato situato presso la città. L'uomo sulle prime è demoralizzato. Non funziona il cellulare, si ritrova in un ambiente ostile, non sa nuotare. Si ritrova solo con la sua sconfitta umana, vittima di un crollo finanziario e della fine di una relazione. Nel frattempo una ragazza passa la sua vita chiusa in camera. Si è volutamente esclusa dal resto del mondo, tagliando i contatti con gli altri. Inventandosi una vita virtuale attraverso il computer. Un giorno, per caso, lei vede lui. Sulle prime lo confonde con un alieno, ma piano piano....
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Possiamo fare a meno degli altri? Possiamo vivere una vita in una dorata esclusione dal contesto sociale, mettendo un muro tra noi e i sentimenti, il mondo, l'umanità? Che la solitudine sia una scelta, come nel caso della ragazza, o una necessità , come nel caso dell'uomo, anche quando essa diventando abitudine, consuetudine, ci dona il miraggio di un equilibrio ritrovato, vedi lui e il suo lavoro per aver il grano con cui fare gli spaghetti, non è una condizione giusta per nessun esser vivente. Che, ripeto, si possano creare motivazioni, gesti rituali, e tante cose per viverci in un dato momento anche lungo della nostra vita, è normale, che sia il fine stesso dell'esistenza no.
O meglio possiamo anche gridarlo forte, possiamo tirar fuori la storiella tipica dei liberali circa la scelta di vita individuale. Possiamo dire e fare tutto, anche esser felici e star bene, ma non è il fine della nostra esistenza. Qualcuno verrà a gettarci delle bottiglie con i messaggi. Basta leggerli.
Possiamo anche non leggerli. Possiamo anche ignorarli. Perché codesto atteggiamento ci aiuta, ci difende. Il dolore, la solitudine ci danno una personalità ben precisa e definita. Una casa, un luogo, in cui siamo "sicuri e protetti". Star male ci fa star bene. Il resto è un tentativo. Il tentativo mette in dubbio e alla prova le nostre scelte, la società fa del nostro immobilismo un punto di forza.

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La potenza di codesta meravigliosa pellicola è proprio questa: lanciare un messaggio profondo, condivisibile, sulle relazioni umane e la loro importanza fondamentale, attraverso momenti buffi, drammatici, divertenti, commoventi, in un contesto tra surrealismo e rappresentazione del reale
Riuscire a commuovere, rendendo "viva", un'anatra di metallo, tettuccio di un furgoncino abbandonato, non è da tutti,ma la grandezza di questo film si trova proprio nelle brevissime sequenze tra uomini e cibo o uomini ed oggetti, come se facessimo parte tutti di un singolo destino, tutti dentro una singola lacrima di dio.
Opera che non lesina nemmeno qualche frecciatina alla vita del paese asiatico, con il suo ritmo vorticoso, il controllo, la paura per qualche minaccia, forse da nord, e della solitudine più o meno forzata che tutti vivono.
Ma noi possiamo e dobbiamo abbandonare le nostre isole e camere. Qualcuno ci sta aspettando.

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