mercoledì 31 agosto 2016

IL CLUB di PABLO LARRAIN

In un paese del Cile, La Boca, c'è una casa nella quale abitano quattro uomini e una donna. Hanno un bellissimo levriero: Fulmine, campione di corse di cani.Sembrano una famiglia. Gente normale che vivono in u posto non proprio bellissimo, ma con il mare- Il che è molto.
Una mattina arriva una macchina. Ci sono due preti. Uno, padre Matias, quanto pare deve fermarsi lì. Veniamo a scoprire così che questi sono dei preti, assistiti da una "sorella", potremmo pensare che la casa sia un luogo di ritiro. Certo, ma che tipo di ritiro?
Poco dopo, all'entrata della casa, si presenta un uomo. Visibilmente scosso, descrive nei minimi particolari l'abuso sessuale ad opera di un religioso.
I preti presenti spingono padre Matias a parlarci e...



Il tema dell'abuso sui minori da parte dei religiosi non è nuovo, e potrebbe aprire a facili e strumentali polemiche.  Nei tempi avvelenati dai commenti e opinioni da social network e da un certo laicismo spiccio e facilone, non è mai una buona cosa. Le cause di progresso meritano sempre una certa lucidità, tatto, non slogan urlati. O tifoseria grossolana.
Per cui il rischio di un film chiassoso  e fin troppo acceso nella vis polemica, c'erano. Ma è una pellicola di un grandissimo e straordinario regista: Pablo Larrain. Quanto conta un regista, lo vedi proprio in opere simili.  Dove è richiesta partecipazione, e sguardo che sappia anche simulare un certo distacco, visto che la materia è già tesa e pesante di suo.
Il club non è solo una pellicola meravigliosa, dolente, difficile da sostenere, su un tema singolo del perché alcuni uomini di chiesa perdano dignità, umanità, di fronte ai piccoli. Non è Spotlight, qui si indaga la disperazione di uomini deboli, che indossavano un abito talare, di fronte alla vita. Ognuno di loro ha le sue colpe ben precise. Chi vendeva bambini nati da ragazzine povere a coppie ricche che non potevano avere figli, cappellani militari a conoscenza di terrificanti segreti, preti che hanno scoperto la possibilità di innamorarsi di un uomo, o che sono da talmente tanto tempo chiusi lì dentro, tanto da non saper più di cosa siano accusati.
Si salva l'istituzione nascondendo la polvere sotto il tappeto. A seguirli, con il compito preciso di chiudere quelle case, con tutto quello che potrebbe succedere, arriva un gesuita. Psicologo e padre spirituale di questi uomini perduti. Fuori, la vittima delle attenzioni di padre Mattias, cerca un inserimento nella società, ma il dolore ha trasformato la sua vita in follia pura, la sua voglia di contatto con i preti fa precipitare le cose.
Un colpevole, smette di esser uomo? Perde la sua umanità e diventa un mostro, no? Chi potrebbe vedere in una persona, per di più un prete, cioè una persona che ha deciso di dedicare la vita al sacro, al giusto, alla perfezione della parola di dio, un mostro? Che peso si porta con sé un uomo o una donna che decidono di dedicarsi alla vita dedicata al servire? Una fede, una chiesa, una parrocchia.  Vivere in castità è possibile? Oppure questa scatena un meccanismo perverso, che esattamente come i carcerati, si trasforma in attenzioni sessuali verso altri preti, fino ad arrivare ai bambini?
Un mostro, per quanto bieco e deprecabile, perde del tutto e per sempre, la sua appartenenza al genere umano? O in lui la tenerezza, la voglia di star con gli altri, rimane e lo fa soffrire il doppio? E quanto soffrono le loro vittime? Possono o meglio, devono, convivere insieme. Però isolati dagli altri.
Protetti, e dispersi, chiusi in una casa-prigione.
Non è un film che va vissuto, perché il cinema non si guarda o si vede solo, non è solo una bella inquadratura, ma si vive, respira, è a volte fonte di gioia, e talora di immenso dolore, insomma: non è film che , penso, vada vissuto con leggerezza e distacco. Impossibile farlo. Perché veniamo sommersi e affoghiamo in un oceano tempestoso e mosso, carico di colpe, dolore, sofferenza, isolamento, esclusione. Schiacciati dalla colpa le persone cercano giustificazioni. Il confine tra bene e male, giusto e sbagliato, che deve essere sempre limpido, cristallino, chiaro, perde di ogni significato. Per loro, ma noi dovremmo essere il gesuita e guardarli con distacco e un filo di disprezzo codesti uomini che hanno perso la sacra direzione nella gioia della vita, e quindi anche nella parola di Cristo, essendo dei preti. Eppure, fino alla scena dei cani, rimani sospeso tra la condanna che deve esserci e un certo tormento sul fatto che codeste persone sono uomini che soffrono delle loro malattie. Forse più che preghiere, e case dove nascondersi, meriterebbero psichiatri e terapie di psicanalisi.Vittime di menti deviate, deboli. Incapaci di assumersi la responsabilità morale del loro compito.
Eppure per tutto il film, non puoi aver troppa pietà per loro. Ma non solo, come nell'opera - l'unica fino ad ora- da me visionata di codesto eccezionale regista, Tony Manero, la colpa, la violenza, la follia, colpisce non solo i protagonisti, ma tutto l'ambiente, anche quello fuori, che dovrebbe esser sano, ma non lo è. Non sono forse prigionieri anche gli abitanti? Non sono forse privi di ogni gioia anche loro?
Opera cupa, radicale, pessimista, seppur con un finale da decifrare, comprendere fino in fondo. Film necessario e fondamentale, che ci spinge a riflettere su come  sia inutile nascondersi, cercare riparo, le colpe che abbiamo commesso ci seguiranno e ci perseguiteranno fino a quando non saremo in grado di conviverci, accettare il male fatto, viverlo ogni giorno senza giustificarlo o allontanarlo, e forse allora si potrà parlare di redenzione.
Forse.

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