mercoledì 5 maggio 2021

IN GUERRA di Stèphane Brizé

 Per anni sono stato convinto che la cosa importante in un film fosse il messaggio. Per cui non tanto l'aspetto prettamente filmico o il come si porta sullo schermo una storia, ma il cosa. Ora ho cambiato gran parte delle mie idee sul cinema, la sua importanza politica e sociale. Credo si possano fare pessimi film pur trattando argomenti impegnati, seri e che, da essere umano, reputo fondamentali sostenere. Il messaggio se non sostenuto dalla tensione narrativa, o usato perché ci consente di sfruttare le polemiche del momento, o per mille altri motivi, non basta a far un buon film,

Per fortuna ci sono anche film come In guerra, che sono opere importanti, fondamentali, perfette a livello teorico,  e vibranti come opere cinematografiche.

Il lavoro è da oltre trenta anni che è stato smantellato, si è praticata la disorganizzazione tra i lavoratori, la disunità e la perdita totale di coscienza di classe. La precarietà e le leggi del mercato, attuate dai loro camerieri e servi, cioè i governi delle democrazie padronali, hanno distrutto l'identità operaia e proletaria. Di fatto, colui che in questi tempi, soffre più di ogni altro essere umano le oppressioni e repressioni del sistema è l'operaio licenziabile o che ha perso il lavoro. I numeri di morti sul posto di lavoro, spesso ignorati o sfruttati per della retorica spiccia, mostrano una realtà dei fatti che non possiamo ignorare: la produttività, il profitto, causa vittime. Tuttavia proporre riflessioni ai campioni delle libertà, democrazie e progressi, su questi temi, ottiene spesso come risultato la loro noia, disprezzo malcelato, verso quelli che da anni sono considerati populisti ignoranti che votano a destra. La sinistra anti proletaria è destra, ma non vorrei rovinare la vita a questi ribelli di carta.  Per cui le problematiche pesantissime della chiusura di una fabbrica, è affare solo di chi ci lavora. 

Anzi, mi correggo. Facciamo un appunto storico ben preciso. La fine della sinistra in Italia ha una data e un luogo: 14 ottobre 1980, Torino. Quando impiegati, quadri, dirigenti della Fiat, marciarono per la fine di un lungo e giustissimo sciopero degli operai della nota fabbrica di macchine italiane. La sfiducia per la sconfitta e le durissime conseguenze che hanno falciato di netto la parte più evoluta, l'avanguardia operaia nelle fabbriche, ha segnato il primo passo verso la rassegnazione della classe operaia/proletaria.
Il secondo ostacolo è stato il risultato del referendum sulla scala mobile, nel 1984, un duro colpo per il Pci e i lavoratori. Tutte queste cose sono precipitate con la precarietà. I lavoratori sono isole, che si scontrano, che vivono la paura della perdita del lavoro e per questo accettano ogni cosa.
Ho famiglia. Questa è la scusa di ogni crumiro, di ogni collaborazionista, di ogni individuo che ha venduto la sua classe per una manciata di soldi, che poi finiscono quando il padrone chiude la fabbrica.  Come se i lavoratori che scioperano non abbiano legami e preoccupazioni. Questa è la menzogna del padrone che è diventata legge anche per il lavoratore.
La divisione, lo scontro interno, è da sempre la migliore arma per distruggere un movimento o una guerra. La lotta di classe fatta dai padroni contro la classe operaia, risulta vincente sotto ogni punto di vista, e in tutto questo ha avuto peso una sinistra che nel tempo è diventata sempre più liberale, legata a temi individuali e ha abbandonato del tutto il conflitto nel nome della classe.  Persone di sinistra che ci tengono a definirsi anti razzisti, a favore dei diritti civili, ma che disprezzano le classi meno abbienti, perché tanto i diritti sociali sono roba del Novecento. In realtà perché difendere quei diritti vuol dire attaccare le democrazie occidentali che si basano in tutto e per tutto sulle leggi e interessi padronali.
Per cui l'operaio è un fascista che va allontanato o un violento che reagisce contro il volere del Dio Mercato Libero, contro i suoi sacerdoti, gli economisti, e la sua dottrina di rapina. 
Parlare di lavoratori, di classe, di diritti sociali, in un film è alquanto bizzarro e anacronistico, forse raccatti ancora un po' di parole di circostanza da parte di quelli che per motivi di decoro, ci tengono ancora a star due secondi con gli operai. Ecco, è un atto di resistenza ostinata, far un film come In Guerra.


Resistere alle leggende, alle menzogne, alla vigliaccheria, allo squallore, alla violenza verbale e non solo, di un sistema politico-sociale che fa schifo ed è sostenuto, voluto, da zavorre umane, da pezzi di merda ambulanti. Pensa che fatica immane, e senza quelle cazzate alla Paul Laverty, senza concessioni simpatiche, leggere, senza concentrarsi sul singolo, perché oggi si ragiona solo così ed è una cosa terribile, ma mettendo in scena La Classe Proletaria. Lo so, molti rideranno. Oddio ancora la classe proletaria, ma che palle! Sì, ancora. Perché senza di essa e il suo sfruttamento- che sia in occidente o in altre parti- voi non campereste nemmeno due secondi. E perché il capitale esercita su di loro il potere delle loro leggi, poi le fa pesare anche a quella parte della borghesia aziendale o dei padroncini che ormai non servono più. 
Animali che vanno al macello felici, ecco chi sono i cittadini delle democrazie padronali. 

Dopo aver spiegato benissimo le vicissitudini che un lavoratore deve subire per ritrovare un lavoro, le logiche del mercato nelle nuove fabbriche che sono i centri commerciali,  il lavoro ingrato che uno deve fare per sopravvivere, non vivere, in quella opera meravigliosa che è La Legge del Mercato, Brizé porta in scena la lotta operaia, la classe proletaria destinata al paradiso e invece sacrificata all'inferno degli interessi finanziari e del capitalismo.

Lo fa descrivendo una fabbrica acquistata da una multinazionale tedesca, che ha stabilito un accordo con i suoi lavoratori. Rimaniamo aperti per cinque anni e poi ci ritroviamo per negoziare un nuovo accordo. Nel frattempo ai lavoratori sono stati tolti diritti. Tuttavia nonostante il grande sacrificio dei lavoratori, ecco che la fabbrica chiude. E non perché faccia perdere denaro, ma per una questione di competitività.
La legge del mercato, i soldi degli azionisti, tutte quelle cose che tirano in ballo per nasconder il fatto che siano degli esseri squallidi da prender a bastonate in testa.
Il film racconta la disperata lotta dei lavoratori e in particolare di un sindacalista, interpretato magistralmente da un immenso Vincent Lindon, degli scontri durissimi con la zavorra padronale, le quinte colonne interne che creano divisione e collaborano con i padroni, lo fa mettendo in scena una vera e propria guerra.
Perché di questo si tratta. Una guerra di classe, fatta dai padroni contro le classi meno abbienti e poi contro gli alleati che non servono più.
Però, per carità, pensate che sia benaltrismo, robe del novecento, e che gli operai siano solo dei reazionari ignoranti. Sentitevi bene mentre mette il mi piace ai deboli pensatori,  o mettete i vostri iosono a cazzo di cane. Ma lasciate stare la sinistra, non accanitevi sul cadavere.


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